Il tenace, il monaco, quello “con la rabbia dentro”. Il taciturno, l’integralista, l’insoddisfatto. Sono tre anni che è morto Pietro Mennea. E lo ricordano in tanti. Gli amici, il mondo dello sport e molti, moltissimi italiani cui aveva regalato il sogno dell’oro olimpico, del record che resiste, della “freccia azzurra” che tiene testa ai neri.
Ma che tipo di italiano era, Mennea? Il Mennea vero, non quello della macchiettistica pigra di un’Italia che ce la fa, che si riscatta, che alla fine trova la quadra. Ecco, io penso che in paese che fa dell’improvvisazione e della creatività un vanto (o un alibi, dipende dai risultati), Mennea è stato un alieno.
Sì, perché ci vogliono sudore, fatica e – soprattutto – metodo e disciplina per diventare Pietro Mennea. Perché è grigia, ripetitiva, metallica, la disciplina. Inumana. Forse anche anti-italiana. E perché – forse – la creatività e l’improvvisazione possono permettersela solo quelli che hanno il culo coperto.
Ecco, io per ricordarlo, vorrei che leggeste questo pezzo di Emanuela Audisio. È di quattro anni fa e nella chiusa c’è una frase che spiega chi era la “freccia del sud”: «5.482 giorni di allenamento, 528 gare – risponde alla giornalista – A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni».
Pazzo, grande, immenso Mennea. Se solo gli italiani fossero un decimo di quello che sei stato tu!