La tassazione delle estrazioni in Norvegia
Da più parti si sente dire che la Norvegia applicherebbe royalty nell’incredibile misura dell’80% sulla produzione nazionale di idrocarburi. L’affermazione è errata. La Norvegia non applica più alcuna royalty dal 1986, proprio come, ad esempio, Irlanda, Regno Unito e Danimarca.
La Norvegia applica un regime di tassazione complessivo molto elevato sugli utili delle imprese petrolifere, con un’aliquota che arriva nel complesso al 78% (28% di imposta sul reddito e 50% di imposte speciali).
Tassare gli utili, però, è molto diverso dal tassare direttamente il volume della produzione, come fanno le royalty. L’utile d’impresa si forma, infatti, dopo aver dedotto i costi di esercizio. La base imponibile su cui si applicano le royalty, invece, è formata dal totale dei ricavi, senza deduzioni.
L’elevato livello di tassazione della Norvegia è peraltro compensato dalla possibilità di totale recupero dei costi esplorativi e dalla possibilità di rivalutare i costi di sviluppo fino al 7,5%, aumentando in tal modo la quota da dedurre nella formazione della relativa base imponibile.
La tassazione in Italia
In vista del referendum del 17 aprile pare che l’Italia, tutt’a un tratto, sia diventata un paradiso fiscale. Tasse bassissime, franchigie, favori ai petrolieri. Ci si dimentica persino che il più grande petroliere italiano, l’ENI, è un’impresa controllata dallo Stato. Ci si dimentica, cioè, che i petrolieri siamo noi, per usare un’espressione cara ad un certo mondo che oggi è schierato per il sì.
In Italia il sistema di prelievo fiscale sull’attività di estrazione di idrocarburi combina royalty, canoni d’esplorazione e produzione, tassazione specifica e imposte sul reddito delle società.
Le imprese che estraggono risorse in Italia pagano anzitutto IRES ed IRAP, tributo, quest’ultimo, che insiste su una base imponibile molto più ampia dei profitti colpiti dall’IRES e che, per tale motivo, copre in parte la stessa area tassata anche dalle royalty, che colpiscono direttamente il volume della produzione.
E’ soprattutto a causa dell’IRAP, non dimentichiamocelo, se una fetta consistente di imprese è tenuta a versare imposte anche se registra una perdita.
Sulle attività estrattive nel 2008 è stata applicata anche l’addizionale della “Robin Hood tax” (un nome, un programma), che è passata da un iniziale 5,5% ad un ben più consistente 10,5% nell’estate 2011, prima di essere dichiarata incostituzionale, con effetto non retroattivo, nel 2015.
Dal febbraio 2009, inoltre, grava specificamente sul settore della coltivazione e dell’estrazione degli idrocarburi un’ulteriore addizionale all’imposta sul reddito delle società che pesa per un altro 4% dell’utile prima delle imposte. Tale imposta è stata introdotta dall’articolo 3 della Legge 6 febbraio 2009, n. 7, con il quale è stato ratificato il trattato bilaterale di amicizia fra Italia e Libia.
La somma di tasse sui profitti, tasse sul lavoro e altre tasse riferite al settore specifico, vede le imprese italiane fra le più tassate dell’area OCSE, con valori d’imposizione complessiva superiori al 60%.
E si pensi che vi sono 4 nazioni OPEC, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrain, che non applicano alcuna tassazione diretta alle imprese nazionali, preferendo tassare solamente le imprese straniere operanti nei loro Paesi.
Quanto alle royalty italiane, per le produzioni a terra sono attualmente del 10% (a seguito dell’incremento del 3% introdotto nel 2009), mentre per le produzioni a mare ammontano al 10% per il gas (ossia per la stragrande maggioranza delle estrazioni in Adriatico) ed al 7% per il petrolio.
Le royalty per le produzioni di idrocarburi in terraferma sono ripartite per il 55% alle Regioni, il 30% allo Stato e il 15% ai Comuni. Tuttavia alle Regioni del Sud Italia tra cui la Basilicata, principale produttore italiano di petrolio, viene riservata anche la quota del 30% destinata altrimenti allo Stato. Per le estrazioni offshore la suddivisione è per il 45% allo Stato e per il 55% alla Regione adiacente per le produzioni ottenute entro la fascia delle 12 miglia (mare territoriale), mentre oltre tale limite le royalty sono interamente devolute allo Stato.
Nelle regioni del Sud le entrate da royalty vengono indirizzate pressoché tutte alle comunità locali, il che non accade negli altri paesi in simile misura.
Oltre alle royalty, le compagnie petrolifere sono tenute al versamento di canoni, dovuti a prescindere dal rinvenimento o dalla possibilità di sfruttamento degli idrocarburi del sottosuolo. In media i canoni sono di circa 3,5 euro per chilometro quadrato per i permessi di prospezione, 16 €/km2 per i permessi di ricerca e di circa 70 €/km2 per le concessioni di coltivazione.
Si aggiunga, poi, che le autorità locali spesso ottengono altre compensazioni dalle imprese, soprattutto sotto forma di investimenti nell’economia e nei servizi sociali locali.
L’Italia non è un Paese per petrolieri
Quando si considera l’incidenza effettiva della tassazione occorre poi considerare anche la produzione totale di idrocarburi, la redditività degli investimenti ed il “time to market” dei progetti, ossia la tempistica legata alle varie fasi autorizzative.
Per ottenere un’autorizzazione per la fase esplorativa in Italia si attende oltre il 70% in più rispetto alla media globale, e il ritardo aumenta ulteriormente per la fase di coltivazione, dove un’autorizzazione può essere concessa in oltre 9 anni, contro una media di 4 all’estero. Ciò comporta maggiori costi e incertezze che impediscono alle aziende di investire.
In conclusione, gli Stati con maggiore prelievo fiscale, come la Norvegia, sono in genere caratterizzati da una maggiore produzione (in UK circa 6 volte maggiore dell’Italia, in Norvegia circa 20 volte), da alta redditività, minori tempi autorizzativi ed elevato flusso di investimenti ed occupazione nel tempo.
Causa la bassa produzione, la maggiore difficoltà di remunerare l’investimento ed i tempi autorizzativi mediamente più lunghi, la pressione fiscale complessiva in Italia finsce per incidere pesantemente sulle imprese del settore, anche in raffronto a paesi come la Norvegia (non parliamo della Russia, ove l’aumento della tassazione nasconde un vero e proprio piano di nazionalizzazione).
Per qualcuno tutto ciò non sarebbe abbastanza.
Agevolare i petrolieri di casa significa incentivare la ricchezza nazionale
Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, ha dichiarato che “se in Italia avessimo portato le royalties al 50%, nel 2015 ci saremmo trovati invece che con un gettito di 352 milioni di euro con uno da 1.408 milioni”.
In realtà, se dopo IRES, IRAP, royalty, alto costo del lavoro, canoni d’esplorazione, burocrazia italica, lungaggini autorizzative e compensazioni locali, avessimo portato le royalty al 50% non avremmo avuto maggior gettito, ma avremmo visto quelle aziende chiudere o scappare dall’Italia.
Che poi è proprio quello che si teme faccia ENI.
Ben vengano, quindi, i sussidi ai petrolieri e ai produttori di gas di casa fin tanto che, amici cari, non potremo permetterci tutti l’auto elettrica e fintanto che non potremo rinunciare completamente ai combustibili fossili.
Fino a quel momento, è sacrosanto che si provi a ridurre la dipendenza energetica dell’Italia dall’estero (oggi importiamo oltre l’80% di idrocarburi, contro la media UE del 55%). E’ una questione di sicurezza nazionale.
In un contesto in cui non sarà possibile rinunciare agli idrocarburi ancora per molti anni, agevolare i petrolieri di casa significa anche favorire la produzione di ricchezza a livello nazionale (ricerca, PIL, posti di lavoro e, quindi, tassazione da redistribuire).
Siamo, insomma, in una fase di transizione delicata che, come tutte le fasi, va governata con saggezza, senza darci la zappa sui piedi per l’ennesima volta, se possibile.
Nel frattempo, attenzione ai paradossi ambientalisti come quello dell’Olanda, ove si sono trovati costretti ad aprire tre nuove centrali a carbone per incrementare la produzione di elettricità e assecondare così la grande domanda di auto elettriche.
Eterogenesi dei fini ambientale.
Paradossi di un certo progressismo.