Con lo scontato voto del Senato che oggi “sospenderà” Dilma Rousseff dalla presidenza, chiamando a sostituirla il vice Michel Temer, si compie quel lungo suicidio politico di un paese che pochi anni fa appariva davanti alla comunità internazionale finalmente all’altezza del suo potenziale, economico, politico e sociale.
Il mondo intero ha assistito prima sorpreso, poi sbigottito, infine inorridito alla fase del processo di impeachment svoltasi alla Camera, sotto la cinica direzione del suo presidente Eduardo Cunha, all’epoca già inquisito per gravi episodi di corruzione, i cui conti segreti in Svizzera erano stati svelati su tutti i giornali brasiliani, con tanto di pubblicazione di e/c e specimen di firma.
Quando la Corte Suprema lo ha tardivamente rimosso dalla carica, la settimana scorsa, non ha fatto altro che certificare quanto anche il più sprovveduto osservatore, in Brasile e fuori, aveva da lungo tempo percepito. Quello in corso è un procedimento privo di qualsiasi fondamento giuridico, che usa strumenti formalmente previsti dalla Costituzione per un regolamento di conti politico, senza esclusione di colpi, tra forze che dominano economia e media brasiliani e che tuttavia hanno perso quattro elezioni di seguito, tra il 2002 e il 2014, da un lato, e un governo democraticamente eletto ma che ha drammaticamente perso contatto con una larga fetta del suo elettorato, dall’altro.
Perché ovviamente la disfatta del governo di Dilma non è spiegabile solo in termini di complotto dei poteri forti, che pure c’è stato e c’è (e basta seguire la narrativa distorta dei principali media, osservare gli abusi di certi giudici, “paladini” della lotta alla corruzione a senso unico, ascoltare le dichiarazioni di certi membri della Corte Suprema apertamente di parte, per rendersene conto). Per vedersi voltare le spalle da oltre due terzi dei deputati, e dalla maggioranza dei senatori, il Partido dos Trabalhadores e i suoi alleati hanno compiuto una lunga sequela di errori, di carattere politico, etico, sociale ed economico. Ma non si trattava di nulla che non potesse preludere a un normale ciclo politico: sconfitta alle prossime elezioni, ricambio di leadership (tra l’altro alle porte se non altro per motivi anagrafici, visto che Lula ha compiuto 70 anni ed è sulla scena nazionale dal 1978), una stagione più o meno lunga di opposizione.
Perché invece con il governo del PT sia imploso l’intero sistema politico-istituzionale brasiliano, lasciando dietro di sé solo macerie, è una domanda cui dovranno rispondere gli storici. Quello che è certo è che il Brasile affronta da oggi acque sconosciute, senza alcuna bussola: non ha più di fatto una Costituzione formale, perché il sistema presidenzialista è stato di fatto modificato con un voto di sfiducia mascherato da processo di impeachment; avrà un governo senza alcun appoggio popolare, perché la reiezione a Dilma è superata solo da quella a Michel Temer, peraltro senza che questi possa vantare alcuna investitura democratica, ancorché evaporata nel tempo; si trova al tempo stesso ad affrontare una economia in grave difficoltà, oltretutto duramente provata dallo stallo politico dell’ultimo anno e mezzo; ha visto crollare la sua credibilità internazionale, faticosamente conquistata con decenni di duro lavoro diplomatico, svanita la sera del 17 aprile, quando il mondo intero ha assistito incredulo alla sfilata di deputati che votavano il sì all’impeachment con motivi ora bizzarri, ora futili, ora apertamente fascisti.
Nessuno può sapere che cosa aspetta il Brasile nei prossimi anni. E’ certo però che dovrà passare molto tempo prima che il paese possa tornare a rivendicare il ruolo internazionale che pochi anni fa sembrava essersi conquistato in modo definitivo, simboleggiato dalla sua aspirazione a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu che proprio Lula aveva con caparbietà cercato come il coronamento della lunga marcia brasiliana dalla periferia al centro del sistema globale.