Ci sono aree del Meridione che sono terra franca. Aree dove lo Stato non esiste. Aree ingovernabili. Terre d’altri o, più propiamente, di nessuno. C’entra la mafia, ma non solo.
Anzitutto c’entra, io credo, un certo spirito anarchico, ribelle e sottilmente sovversivo. Uno spirito che appare molto più diffuso nel Sud d’Italia rispetto ad altre aree del Paese.
Si tratta di uno spirito che nasce lontano nel tempo, ma che affonda di sicuro le sue radici anche nelle anomalie che contraddistinsero l’annessione del Meridione al resto d’Italia. Un processo a cui le masse popolari del Sud si sentirono per lo più estranee. Dal canto suo, il governo unitario non riuscì mai, nei 150 anni successivi, a presentare un progetto efficace di piena identificazione nazionale e di recupero degli enormi divari esistenti.
Vale, purtroppo, quanto sostiene Sergio Rizzo quando dice che “I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana.”
Sta di fatto che un certo spirito anarchico si è trascinato fino ad oggi ed a molti l’assenza di governo sembra apparire spesso come un’ottima opzione di autogoverno.
Un mese fa un gruppo di abitanti e commercianti del quartiere Kalsa di Palermo hanno aiutato a scappare un rapinatore inseguito dalla polizia.
Ad inizio maggio a Catania, nel rione Nesima, i carabinieri non sono riusciti ad ammanettare un fuggitivo perché assaliti da gente della zona e colpiti con schiaffi e pugni.
Un fatto analogo è accaduto qualche mese fa a Trapani.
A Napoli, ad inizio aprile, la folla ha cercato di proteggere uno scippatore durante l’arresto nel Rione Sanità.
Qualche anno fa circa ottanta cittadini di Anoia, piccolo centro a pochi chilometri da Rosarno e Gioia Tauro, si sono scagliati contro i carabinieri aggredendoli e permettendo di nuovo la fuga di alcuni malviventi.
Poi vi è ovviamente il cancro mafioso.
Dal 2010 al 2014 in Italia sono stati sciolti 61 consigli comunali per infiltrazioni mafiose, concentrati soprattutto in sole tre regioni: Calabria con n. 33 scioglimenti, pari al 54,1% del totale, Sicilia con n. 12 (19,7%) e Campania con n. 11 (pari al 18%) (fonte: rapporto UCS del Ministero dell’Interno del maggio 2015).
In questo contesto l’aspirante sindaca del PD per il comune di Platì, piccolo comune di 3.800 abitanti della provincia di Reggio Calabria sciolto per mafia ben due volte negli ultimi anni e dove nessuno vuole votare, non è riuscita a formare la lista per mancanza di candidati disponibili.
Di recente al sindaco di Cerda, in provincia di Palermo, i boss hanno bruciato l’auto per costringerlo a scendere a patti. «Ci dobbiamo prendere il paese nelle mani» ripetevano al telefono, ignari di essere intercettati dai carabinieri.
Sempre stando a fatti recenti, 35 sono gli arrestati a Messina per voto di scambio. Le indagini dell’operazione «Matassa» hanno dimostrato che aderenti alle cosche mafiose, in correlazione con personaggi del mondo politico locale, hanno ostacolato il libero esercizio del diritto di voto per le consultazioni elettorali regionali, politiche e comunali che vanno dall’ottobre 2012 al giugno 2013.
Potremmo dilungarci per ore, lo sappiamo.
In questo contesto di sottile anarchia e difficoltà ad assicurare un governo locale per certe aree, mi sembra legittimo chiedersi a che serva la democrazia se non a supportare un certo malcostume, un certo spirito sovversivo e finanche l’infiltrazione mafiosa.
Se l’amministrazione locale, dopo decenni, non è in grado di incidere culturalmente, di imporre una svolta sociale, la democrazia diventa solo controproducente.
Togliere la democrazia locale a certe aree del Meridione significa amare questa terra e potrebbe costituire l’ultimo espediente per evitare che i morbi si diffondano e che certe situazioni si incistino a tal punto da portare ad interventi ancor più drastici.
Togliere la democrazia significa cancellare per un po’ agli amministratori locali e lasciare ogni decisione in capo al Governo, ad un dipartimento apposito, ad una volontà esterna, che guidi da fuori, al riparo da minacce e infiltrazioni.
Non si tratta, in realtà, di togliere democrazia veramente, ma di tenerla a distanza, relegandola ad un livello più alto, ove possa essere più difficilmente ostaggio del contesto in cui è chiamata ad operare.
Si tratta, in altre parole, di ripensare l’istituto del commissariamento ampliandone la portata e la durata, considerando che già oggi gli organi locali possono essere sciolti, tra l’altro, per “gravi motivi di ordine pubblico”.
Ciò avrebbe anche il pregio di eliminare quel raccordo politico-clientelare che ha permesso alla politica del secondo dopoguerra di utilizzare la democrazia al Sud come terminale di voti da convogliare a proprio uso e consumo.
Si obietterà che per definizione l’amministratore deve stare vicino alla popolazione che amministra. Ci sono, però, dei casi in cui questo assioma sembra attuarsi soltanto in forme di abuso. Dei casi in cui la democrazia diventa sdemocrazia e non riesce ad essere altro.
Non mi sembra questo il putno, comunque.
Qualche settimana fa, in una bella intervista rilasciata al quotidiano Italia Oggi, il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, presentando il suo ultimo libro «Lezioni sul meridionalismo», ha affermato che “Di certo c’è da chiedersi se sia un bene lasciare il Mezzogiorno nelle mani dei soli meridionali”.
Questo mi sembra il punto.
Nella stessa intervista il giudice ha ricordato anche le parole di Guido Dorso, per il quale la soluzione dei problemi del Meridione, sulla linea di Gaetano Mosca, sarebbe dipesa dalle sue élites (basterebbero «100 uomini d’acciaio», diceva Dorso).
Ma quando, per decenni, certe aree non riescono ad esprimere una classe dirigiente minimamente all’altezza, finisce per consolidarsi un costume sociale che diventa poi difficile mutare.
In linea di principio non potrò che essere sempre contrario a forme di interventismo dall’alto (l’elitismo di Mosca implica però qualcos’altro e su questo ci torneremo).
C’è però una forma di interventismo, da definirsi più propiamente “d’impulso“, che se misurata, soprattutto nella sua durata, può consentire l’innescarsi di circoli virtuosi che altrimenti potrebbero non ripartire più.
Non si tratta di paternalismo statale, ma, come lo definiva Luigi Einaudi, di un’intervento consistente nel “togliere gli impedimenti e nel creare le condizioni, nel segnare le vie, nel marcare i passi entro cui ed attraverso a cui l’individuo deve da sé trovare, col proprio intimo perfezionamento, collo sforzo faticoso, coll’esperienza vissuta, attraverso a contrasti e ad insuccessi, in contrasto e in collaborazione con altri individui, separati od associati, la via della salvezza” (La dottrina liberale, «Corriere della Sera, 6 settembre 1925, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 461-462).
L’interventismo che ha contraddistinto la recente presa di posizione del Governo su Bagnoli forse dovrebbe diventare un metodo costante.
Un metodo per sottrarre certe aree del Meridione a delinquenti, sanguisughe, mafie e moderni Masaniello capaci solo di aizzare le folle contro il nulla, se non contro loro stesse. Un metodo per “segnare le vie” dello sviluppo del Meridione.
Insomma, la domanda con cui vi lascio è questa: quando una democrazia, per le ragioni più varie, non è più capace di esprimere una classe dirigente minimamente all’altezza, ma esprime solo una classe che può anche portarla alla rovina, possiamo ammettere interventi correttivi che in qualche modo si pongano al di sopra o all’esterno di quella democrazia? O dobbiamo considerare la stessa rovina della democrazia un’opzione possibile?
Dopo le tragedie del ‘900 io ho pochi dubbi a riguardo. Si tratta solo di valutare limiti e portata di questi correttivi dal di sopra. Esercizio non da poco, me ne rendo conto.