Pizza ConnectionSignora mia, nonostante le sentenze, a Roma la mafia non è solo al cinema

Lo scorso 13 giugno si è chiuso con 10 condanne e 8 assoluzioni il processo d'appello che vedeva alla sbarra diciotto persone, tra cui componenti delle famiglie Fasciani e Triassi, accusate di aver...

Lo scorso 13 giugno si è chiuso con 10 condanne e 8 assoluzioni il processo d’appello che vedeva alla sbarra diciotto persone, tra cui componenti delle famiglie Fasciani e Triassi, accusate di aver dominato le attività illecite a Ostia, quartiere litoraneo di Roma. I giudici della II Corte d’appello, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, hanno condannato a 10 anni di reclusione il ‘capofamiglia’ Carmine Fasciani, confermando l’assoluzione di Vito e Vincenzo Triassi.

Fasciani e Triassi sono due nomi che hanno contraddistinto gli equilibri criminali del passato recente sul litorale romano. I primi presenza storica di Ostia e alleati con il napoletano Michele Senese detto ‘o pazzo, i secondi ritenuti luogotenenti nel litorale romano della famiglia di cosa nostra Caruana Cuntrera, tra i più grandi trafficanti di droga del secolo scorso.

Negli atti degli inquirenti romani sono contestati episodi di usura, estorsione e intimidazioni, che hanno portato le due famiglie a processo con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Condannati in primo grado in appello è caduta l’associazione mafiosa: per i giudici capitolini di secondo grado i due clan non mettono in campo le caratteristiche proprie della mafia. Ci sarà da attendere le motivazioni, ma la prassi al Palazzaccio romano è piuttosto consolidata, così come accade per una buona parte delle sentenze emesse dai tribunali del centro-nord, dove contestare l’associazione mafiosa diventa ora sempre più complicato.

Stando alla giurisprudenza a questi “nuovi” clan mancano le caratteristiche tipiche che hanno permesso di disegnare una storia giudiziaria di mafie come cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. D’altronde, come nota più di un giurista da qualche tempo, il reato che configura l’associazione mafiosa, cioè il 416 bis del codice penale ha in sé elementi ambientali e sociologici tipici delle mafie meridionali. Tratti che in alcuni casi non vengono riprodotti in altri contesti territoriali.

Una questione tecnica che riconduce il reato di associazione mafiosa in una fattispecie molto precisa. Il requisito del metodo mafioso è ovviamente essenziale: gli associati, per essere mafiosi, devono avvalersi di una forza di intimidazione che provoca nell’ambiente circostante assoggettamento e omertà.

Come si diceva nel caso specifico di Ostia occorrerà attendere le motivazioni, eppure questa derubricazione da associazione a delinquere di stampo mafioso, ad associazione a delinquere semplice (il che comporta comunque pene severe a cui si possono sommare altri singoli reati contestati), sta prendendo piede nelle regioni del centro nord. Sconsolati alcuni inquirenti mormorano che «ci sono giudici i quali ci fanno sapere che nelle nostre indagini non si desume omertà e assoggettamento».

Una posizione curiosa che se confermata dalle motivazioni della Corte d’Appello di Roma farebbe comunque sorgere più di una domanda sia a livello giudiziario, sia per alcuni commentatori che si sono subito affrettati a dire che no, a Roma la mafia non c’è e questa sentenza ne è una prova.

Dicono che manchi l’intimidazione e l’assoggettamento dell’ambiente circostante. Ebbene, alla faccia. Al processo sui fatti di mafia capitale un piccolo commerciante della Capitale è letteralmente terrorizzato e perde la memoria. Una volta seduto davanti alla corte si rifiuta di fornire il suo indirizzo, e il presidente della corte, facendo un’eccezione glielo concede. Il commerciante aveva raccontato ai Carabinieri delle minacce confidategli da un amico titolare di un autosalone. Minacce arrivate da “er cecato” Massimo Carminati.

Agli atti dell’inchiesta ci sono le dichiarazione del titolare dell’autosalone che racconta l’intimidazione dello stesso Carminati : «un sabato mattina mentre accompagnavo mia figlia a scuola ho incrociato Carminati lungo corso Francia e lo stesso, dopo avermi seguito per un pezzo di strada, mi affiancava e mi guardava. La circostanza mi ha spaventato parecchio, tanto che sviavo lo sguardo e cambiavo corsia». Il tutto perché l’imprenditore avrebbe dovuto vendere o affittare ai due un terreno su cui avviare un deposito di carburanti. Lui però nicchia e Carminati minaccia.

Il titolare dell’autosalone si confida con l’amico che viene chiamato a deporre in aula dopo aver consegnato il suo racconto ai Carabinieri. In aula però c’è una differenza: in video conferenza c’è Massimo Carminati che assiste, e il commerciante non ricorda più una circostanza. Nel verbale vengono fatti i nomi di Carminati e del suo “socio” Brugia, in tribunale diventano però «minacce generiche, non ricordo che mi avesse (il titolare dell’autosalone, ndr) fatto nomi».

In oltre un’ora, aveva fatto notare in aula il pm Luca Tescaroli «non ha mai pronunciato il nome di Carminati». Dicono che però di omertà non ce n’è. Ci viene in soccorso ancora una volta la cronaca: prevista per ieri sempre al processo mafia capitale era la deposizione di Roberto Grilli, lo skipper fermato al largo della Sardegna con 500 chili di cocaina purissima nascosta nello scafo. Da lì partì l’inchiesta della procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone.

Tra gli assoldati dall’ex Nar Massimo Carminati, Grilli inizia a cantare e dimostra di saperla lunga sulla banda del Mondo di Mezzo. Eppure ieri, arrivato il suo momento in aula fa sapere che «non me la sento». Le «condizioni psicologiche e fisiche» in cui si trova, dice, «non mi permetto di rispondere: mi prenderò le responsabilità del caso». Legittimo, ma da qui a dire che omertà e assoggettamento non ci sono fa una bella differenza. Eppure estorsioni, intimidazioni e reticenze nelle testimonianze raccontano storie che sanno di mafia, e che di mafia hanno la consuetudine dei crismi criminali. Siano sufficienti le cronache e le carte di inchieste fatte da Roma ad Aosta. Che non si usi una sentenza per dire che «qui, signora mia, la mafia non c’è» e se la volete vedere andate al cinema.

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