Il lavoro senza “narrazione”
L’introduzione e la pervasività delle innovazioni tecnologiche ha (dis)articolato il mercato del lavoro e ha prodotto uno sfarinamento delle condizioni professionali e dei profili del lavoratori. La riflessione sul lavoro e sulla cultura del lavoro, non ha saputo seguire le trasformazioni sociali ed economiche che sono rapidamente intervenute. Così, quando guardiamo a questo tema è come se fossimo affetti da strabismo. Fatichiamo a mettere a fuoco l’oggetto. Non abbiamo le lenti adeguate ad analizzare correttamente il fenomeno. Perseveriamo a utilizzare gli stereotipi del passato. Fuor di metafora, il tema del lavoro e dei suoi cambiamenti (organizzativi e culturali) non è stato più rivisitato in modo complessivo dopo la fine del mito della classe operaia. Il lavoro è diventato flessibile, diffuso. Sono mutate profondamente le mansioni e le professioni. Ma anche i significati attribuiti dai soggetti. Tuttavia, ogni volta che, in particolare in Italia, si tocca il tema delle regole del lavoro – com’è accaduto anche con la riforma del Jobs Act – scattano meccanismi difensivi “a prescindere”. Parafrasando il titolo di un famoso libro di Aris Accornero, si potrebbe sostenere che pensiamo ancora al “Lavoro come ideologia” (Mulino, 1981). E quando assume questa connotazione, si creano dei tabù, intoccabili per definizione. Non sono possibili mediazioni: il discorso pubblico sull’ultima riforma del lavoro spesso è stato (e lo è ancora oggi) un terreno di scontro ideologico, più che un confronto reale di idee. Poco realismo e molta dottrina. Focalizzati solo sulle regole, si perdono di vista le trasformazioni produttive e, in particolare, il valore assegnato al lavoro. Se assumiamo quest’ultimo punto di vista – come dimostra la ricerca sui lavoratori dipendenti in Italia di Community Media Research per Adecco – allora scopriremmo che la flessibilità (diversa dalla precarietà), la ricerca di realizzazione personale, l’idea del lavoro vissuto come percorso di crescita professionale più che come posto fisso, sono dimensioni centrali nelle aspirazioni delle persone. Scopriremo che alcuni dei vecchi tabù sul lavoro si sono trasformati. Senza di questa capacità riflessiva, senza una rappresentazione adeguata, viene meno un elemento di identificazione sociale, di riconoscimento per gli stessi lavoratori e per chi cerca di rappresentarli. Manca una “narrazione” del lavoro coerente con i suoi cambiamenti e le sue articolazioni. Manca nel settore industriale ed è tanto più inesistente nel settore dei servizi.
Un tempo più (in)determinato
Il tema del lavoro a tempo indeterminato ha anch’esso subito un processo di differenziazione nei significati attribuiti dagli stessi lavoratori. Detto che la grande maggioranza dei lavoratori possiede un’occupazione a tempo indeterminato (75,8%) e che in una simile condizione si trovino più spesso i maschi in età centrale (35-54 anni), in possesso di un livello di studi medio alto (diploma e laurea) che svolgono mansioni tecniche, specialistiche e dirigenziali, impegnati full time, chi risiede nel Nord Italia ed è impiegato in un’impresa del settore industriale con più di 50 addetti; la ricerca svolta presso gli occupati in Italia offre una chiave di lettura generale che conferma tale trasformazione: il contratto di lavoro a tempo indeterminato sembra essere sempre meno… determinato. Sia chiaro: disporre di un lavoro a tempo indeterminato è ancora un orizzonte ritenuto importante e fondamentale. Nell’immaginario collettivo svolge ancora – per la maggioranza degli interpellati – una funzione di tutela e di garanzia. Per molti rappresenta ancora una garanzia che consente di guardare al domani con serenità (75,2%), permette di fare progetti per il futuro (75,7%), è utile per la vecchiaia (73,4%).
I processi di erosione
Tuttavia, ne è stata erosa la forza intrinseca poiché è diventato più debole rispetto a un tempo. Ciò avviene almeno per due ordini di motivi. Il primo è di carattere oggettivo. Come sottolineano gli stessi interpellati, il contratto a tempo indeterminato non è più una garanzia come poteva essere anni addietro (56,8%); costituisce una sicurezza illusoria, perché in virtù delle nuove normative il licenziamento è stato reso più facile (53,1%). Inoltre, a causa delle riforme intervenute non è più quella promessa utile a costruire una pensione futura (50,6%). Quindi, un’insieme di fattori ne hanno indebolito strutturalmente i tratti caratteristici d’un tempo.
Il secondo motivo è di natura più squisitamente culturale. Le persone mettono sempre più l’accento sulla gratificazione individuale sul lavoro, sull’idea che il lavoro deve rappresentare un percorso di carriera, una progressione professionale (e meno un posto). Di qui, si può comprendere perché si percepisca il luogo di lavoro come una sorta di seconda casa, dove si sviluppano relazioni positive; perché si ritenga che il lavoro autonomo possa offrire più soddisfazioni di un lavoro come dipendente (57,6%); il fatto che più che avere un lavoro a tempo indeterminato, sia meglio poter disporre di prospettive di carriera e di crescita professionale (56,9%). In definitiva, nel lavoro la centralità è assegnata alle dimensioni soggettive, alla ricerca di una gratificazione che non è meramente economica, ma di natura relazionale e di possibilità di crescita per le proprie competenze. Ciò spiega l’affermarsi di un’idea del lavoro meno legato alla dimensione del “posto” e maggiormente declinato con quella del “percorso di carriera”. E, di conseguenza, la stessa visione di giustizia sociale sul lavoro sia legata maggiormente al concetto di meritocrazia.
Rileggere il lavoro
L’insieme di questi aspetti, dunque, spingono a ritenere che la percezione del valore del tempo indeterminato rimanga sicuramente una dimensione importante nella vita professionale di una persona. Poiché psicologicamente, ancor più che oggettivamente, permette di immaginare il proprio futuro, offre quelle certezze necessarie in un ambiente che è diventato progressivamente incerto e mutevole. Nello stesso tempo, però, ne è mutato il significato e il peso attribuito. Non ha più quella consistenza granitica d’un tempo sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello espressivo. Perché si sono articolate le professioni e con esse i percorsi di carriera; perché le persone hanno accentuato l’aspettativa di un lavoro più tailor made, personalizzato e gratificante sotto il profilo professionale. Così, ciò che ieri era “indeterminato”, oggi è diventato meno “determinato”. Sui temi del lavoro e sulla questione del tempo indeterminato grava ancora un’ingessatura culturale che impedisce una discussione pragmatica e meno ideologica. Capace di affrontare la realtà dei fenomeni sociali senza per questo negare il valore e la dignità del lavoro: è una questione sicuramente sfidante, ma che può aprire alla costruzione di nuovi scenari e nuove opportunità.