Banca(rotta)Fra un CET1 e un Cetto La Qualunque chi è il più affidabile? Note critiche sulla supposta solidità “ufficiale” delle banche

Il bizzarro titolo di questo post deriva dall'assonanza fra uno dei più usati (ed attualmente abusati) indicatori di solidità patrimoniale delle banche (il CET1 ratio, cioè l'indice di CET1 o, più ...

Il bizzarro titolo di questo post deriva dall’assonanza fra uno dei più usati (ed attualmente abusati) indicatori di solidità patrimoniale delle banche (il CET1 ratio, cioè l’indice di CET1 o, più concisamente, CET1) ed il nome di un pittoresco personaggio inventato, qualche anno fa, dalla fervida immaginazione del comico-cabarettista Antonio Albanese (Cetto La Qualunque), la cui effigie troneggia qui sopra.

Per coloro che non lo ricordassero, tale macchietta, apparsa per la prima volta in un programma RAI del 2003, ma portato al successo nel programma della Gialappa’s Band Mai dire domenica di una decina d’anni fa, rappresentava – in un taglio volutamente ironico-demenziale – un imprenditore e politico calabrese cinico, disonesto e depravato, che con grande disprezzo verso i valori morali, cercava di accattivarsi la benevolenza degli elettori con promesse tanto mirabolanti quanto irrealizzabili.

Stante, peraltro, la atavica ignoranza di tale Cetto La Qualunque, il suo eloquio era infarcito di strafalcioni lessicali e grammaticali, tanto che il suo “marchio di fabbrica” era la trasformazione di parole in avverbio. Egli era, infatti, solito aggiungere – a casaccio e per impressionare la platea degli ascoltatori di turno – il suffisso –mente, creando, così, neologismi quali, ad es., “comunquemente”, “spessatamente”, “tralaltramente” e quel “qualunquemente“, che è stato, poi, scelto come titolo del film (diretto da Giulio Manfredonia nel 2011) incentrato sulle vicende di tale personaggio.

L’accostamento fra CET1, di cui discuteremo ampiamente in questo post, ed il summenzionato Cetto non si esaurisce, peraltro, nel solo richiamo di nomi assonanti, ma prosegue anche analizzando la “affidabilità” (o – considerando il fenomeno da altro punto di vista! – “inaffidabilità“), che contraddistingue ed accomuna ambedue.

Detto che la sommaria descrizione fatta più sopra sul personaggio di Albanese sicuramente basta ed avanza a denotare quale livello di affidabilità esso possa vantare, vediamo di analizzare più in dettaglio i tratti essenziali del CET1 ratio, così da verificare se le sue “proprietà taumaturgiche” sbandierate in questo periodo da più parti non siano per la gran parte che semplice “fumo negli occhi“.

Ci riferiamo, ad esempio, a tutte le dichiarazioni degli altri vertici delle banche nazionali (Banca d’Italia) e sovranazionali (BCE), che non mancano di rassicurare la platea di ascoltatori su quanto questo indice sia importante ed alto nel sistema bancario. A fine luglio l’EBA (la European Banking Authority) ha pubblicato, ad esempio, i risultati dello stress test sulle banche europee di rilevanza sistemica e su 51 istituti di credito del Vecchio Continente (fra le quali le italiane Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Popolare, Ubi Banca e Mps) solo il Monte dei Paschi di Siena è stato “rimandato”, mentre tutte le altre sono state “promosse” a pieni voti, perfino quella Deutsche Bank salita agli onori della cronaca per il mix esplosivo di finanza tossica che ha in pancia!

Ora, se lo scenario è questo, viene davvero da chiedersi che tipo di affidabilità possa vantare tale indice di solidità bancaria, alla luce anche delle argomentazioni già trattate nel precedente post del 3 ottobre scorso dal titolo Il vaso di “Bancora”: brevi note sul credito deteriorato delle banche e sui più che legittimi dubbi circa i numeri ufficiali .

Rafforzando il concetto di cui sopra, che senso ha stare a sentire un banchiere (od il suo degno erede), il cui sport preferito è tracciare i cerchi in terra, che il suo istituto bancario ha un CET1 ratio del 18,42% (come da figura qui di seguito), con ciò sottintendendo che trattasi di banca solidissima? E’ veramente così o forse c’è altro da sapere che molti, interessati, si guardano bene dal dire?

Per rispondere a tale domanda dobbiamo ben capire cosa sia effettivamente il CET1 (ratio) quando si parla di banche e quali criticità si nascondano in quel tranquillizzante numeretto.

Diciamo preliminarmente che il termine CET1 è un acronimo inglese che sta per Common Tier Equity 1 ovvero, in italiano, Capitale primario (o di base) di classe 1.

La dicitura CET1 ratio, traducibile come indice di CET1, designa, infatti, un rapporto, espresso in percentuale, calcolato mettendo a numeratore il capitale ordinario versato (Tier 1) ed a denominatore le attività ponderate per il rischio (RWA ovvero Risk-Weighted Assets).

Cerchiamo di spiegare in maniera più accessibile cosa misura esattamente questo quoziente e quali sono le avvertenze fondamentali da seguire nella sua lettura e comprensione.

In sostanza il CET1 ratio ci dice con quali risorse l’istituto bancario (oggetto di valutazione) riesca a garantire i prestiti concessi ai clienti ed i rischi rappresentati dagli eventuali crediti deteriorati (i “famigerati” NPL o NPE, i.e. Non Performing Loans o Non Performing Exposures, a seconda delle definizioni considerate).

Data una definizione di tale indice, vediamo cosa c’è esattamente a numeratore e denominatore del CET1 ratio.

Per fare questo, dobbiamo riferirci alla normativa internazionale denominata Basilea 3 (Schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari) emanata nel dicembre 2010. Essa rappresenta un obbligo cogente in questo campo per tutte le banche europee, che sono chiamate a seguirne alla lettera le disposizioni. In tale corpus di norme si trova anche la descrizione dettagliata di cosa esattamente mettere nei vari termini del CET1 ratio.

In particolare il numeratore del CET1 ratio è composto dalla somma algebrica di alcuni elementi del patrimonio netto della banca.

Tali voci da addizionare sono le seguenti:

1. azioni ordinarie emesse dalla banca che soddisfano i criteri di classificazione come azioni ordinarie a fini regolamentari (o gli strumenti equivalenti per le banche costituite in forma diversa dalla società per azioni);

2. il sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel Common Equity Tier 1;

3. le riserve di utili;

4. le riserve da valutazione e altre riserve palesi;

5. le azioni ordinarie emesse da filiazioni consolidate della banca e detenute da soggetti terzi (ossia interessi di minoranza) che soddisfano i criteri di computabilità nel Common Equity Tier 1;

6. gli aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del Common Equity Tier 1.

In buona sostanza, quindi, nel numeratore del CET1 ratio troviamo principalmente il capitale della banca (azioni ordinarie) e le riserve di utili, quelle derivanti da utili non distribuiti, aldilà di altre voci che qui non interessa trattare.

Al denominatore del CET1 ratio compariranno, invece, le attività ponderate per il rischio o Risk-Weighted Assets (RWA).

Tale cifra rappresenta la sintesi dei principali fattori di rischio riconducibili a una data attività finanziaria. In pratica (e senza entrare troppo nel dettaglio tecnico) si attribuisce ad ogni voce dell’attivo patrimoniale della banca un coefficiente di ponderazione via-via crescente all’aumentare della rischiosità stessa di tale attivo, in modo che il calcolo produca un incremento degli RWA all’aumentare del rischio delle attività ovvero un decremento al diminuire di essa.

Per esempio, a parità di valore nominale di due differenti obbligazioni detenute nel portafoglio della banca, la detenzione di un’obbligazione corporate a medio/lungo termine di un azienda con utile di bilancio negativo nel corso degli ultimi 3 esercizi e rating BBB, genera degli RWA più elevati rispetto alla detenzione in portafoglio di un titolo di stato di un ente governativo a breve scadenza e a basso rischio sistemico, con rating AAA.

Considerando che il CET1 ratio è un quoziente fra le due quantità sopra indicate, l’ammontare degli RWA influenza grandemente l’entità del patrimonio che le banche dovranno detenere per soddisfare i requisiti di adeguatezza patrimoniale richiesti dal Comitato di Basilea.

Una volta, infatti, fissato il capitale minimo da soddisfare in termini di CET1, le banche hanno di fronte a sé tre strade maestre da seguire per rispettare la normativa, che denomineremo – per nostra comodità – nella seguente maniera:

METODO “D”, i.e. fare leva sui rischi assunti (il Denominatore);

METODO “N”, i.e. fare leva sul capitale proprio (il Numeratore);

METODO “ND”, i.e. fare leva sia sul capitale proprio (il Numeratore) che sui rischi assunti (il Denominatore).

Facciamo un semplice esempio per meglio illustrare questo meccanismo.

Supponiamo che l’autorità di vigilanza abbia imposto un CET1 ratio del 10% alle banche europee e supponiamo che la Banca Esempio alla fine del 2015 possieda un indice di patrimonializzazione pari al 9%. La Banca si trova al di sotto dei requisiti minimi e deve tornare sopra al livello minimo del 10%, pena il commissariamento ovvero la liquidazione coatta amministrativa. Cosa potrebbe fare?

Considerando che non sta facendo utili e i soci non intendono ricapitalizzare, mettendo mani al portafoglio (quindi agendo sul numeratore del CET1 ratio), la Banca può soltanto agire sul’RWA, diminuendo la rischiosità del proprio portafoglio, e, quindi, tendenzialmente facendo meno credito e parcheggiando la liquidità attratta dai finanziatori in attività meno rischiose, ad esempio comprando titoli di stato anziché finanziando le aziende. Così facendo la Banca Esempio cercherebbe di diminuire l’RWA, a parità di numeratore [METODO “D”].

Qualcuno, però, nella Banca Esempio propone una strada alternativa: “E se addebitassimo più oneri e commissioni ai nostri clienti, così da fare più utili? Potremmo accantonare un po’ di questi utili nelle riserve e, quindi, migliorare la nostra patrimonializzazione, senza toccare il profilo di rischio dei nostri assets attivi“. In questo senso, quindi, a parità di RWA (il denominatore) migliorerebbe il numeratore (le riserve di utili), facendo così ritornare il CET1ratio della Banca Esempio a cifre congrue [METODO “N”].

Facendo, però, i conti la Banca Esempio si accorge che, per ritornare sopra il CET1 regolamentare, dovrebbe addebitare troppi costi ai clienti, con il rischio di perderli, rischio che non vuole correre. Pensa e ripensa, i vertici della Banca decidono di adottare una via mezzana (“in medio stat virtus“, aveva detto il Presidente del C.d.A.): andranno ad addebitare un po’ più di costi alla clientela, migliorando così gli utili e le riserve (lato numeratore) e, contemporaneamente, sposteranno parte dei propri assets da attività più rischiose ad attività meno rischiose, destinando, per es., la raccolta, anziché a nuovo credito ai clienti, all’acquisto di titoli di stato (lato denominatore). In pratica, così facendo, la Banca Esempio riuscirebbe a migliorare il capitale detenuto abbattendo parzialmente il RWA [METODO “ND”].

Questo in via del tutto teorica è quello che si potrebbe fare, ma, in effetti, c’è una quarta via, su cui, peraltro, la magistratura sta indagando in vari filoni di inchiesta attinenti a Banca Etruria, Banca delle Marche, Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza, Monte dei Paschi di Siena, etc.: il c.d. METODO “F”.

In cosa è spesso consistito tale metodo?

Se una Banca, trovandosi in difficoltà e non sapendo cosa fare, in quanto nessuno vuol più sottoscrivere un aumento di capitale e gli utili latitano (lato numeratore) ed i crediti deteriorati pesano molto sul bilancio in termini di rettifiche ed accantonamenti (aumentando, cioè, il RWA, lato denominatore), potrebbe usare un po’ di FANTASIA, da cui la lettera “F” della denominazione di questo 4° metodo (anche detto METODO DEL BILANCIO “CREATIVO”).

Occultando, infatti, le perdite latenti sui crediti per il deterioramento massiccio di molte posizioni creditorie (detto in parole povere: facendo apparire come “buono” il credito che buono non è!), la banca in questione avrebbe giovamenti lato numeratore (dovendo apportare minori rettifiche e svalutazioni e, quindi, ottenendo un migliore utile di bilancio e più riserve di utili) e lato denominatore (in quanto l’RWA di un credito “in bonis” è sicuramente più basso dello stesso credito in fase di deterioramento o già deteriorato), ottenendo, quindi, un CET1 ratio fittiziamente migliore, solo grazie ad un indebito occultamento del marcio che c’è nelle sue attività (impieghi, portafoglio, etc.).

Proprio in ciò sta tutta la pericolosità di affidarsi ciecamente ad un solo indice patrimoniale per tentare di valutare la solidità di una qualsiasi banca:

potendo, purtroppo, il CET1 ratio essere “manipolato” con estrema facilità (come le vicende giudiziarie di quest’ultimo periodo ci raccontano), tale indice non è da solo sufficiente per valutare la solidità della banca.

Prova di questo sia il fatto che in Italia vi sono istituti che presentano CET1 ratio “normali” (cioè superiori a quelli richiesti dalla normativa), che, però, non riflettono l’ammontare di crediti deteriorati posseduti dalla banca che potrebbero mettere a rischio la normale gestione dell’attività. Serve un esempio?

Nella semestrale al 30 giugno 2016 la Banca Monte dei Paschi di Siena ha comunicato di avere postato un utile di 302 milioni di € e di possedere un indice di CET1 del 12,1%, ben al di sopra delle soglie minime richieste nell’ambito dello SREP dall’Autorità di Vigilanza.

Da ciò sorge spontanea una domanda di puro e semplice buonsenso:

alla luce dei numeri di bilancio ufficiali, che bisogno avrebbe tale banca di ricapitalizzare per le cifre note anche al grande pubblico (fino a 5 miliardi di €)?

È bene, quindi, non limitarsi esclusivamente all’analisi del CET1 ratio per valutare la solidità di un istituto di credito, essendo indispensabile analizzare in profondità, di volta in volta, voci critiche del bilancio di qualsiasi azienda bancaria, quale la qualità degli impieghi, la redditività, il valore del capitale, nonché tutte le notizie riguardanti tale banca (il c.d. sentiment verso l’istituto oggetto di studio).

Solo uno studio serio ed approfondito di tutte le varie sfaccettature del modello di business della banca potrà rispondere esaurientemente ai dubbi legittimi sulla sua supposta solidità o fragilità patrimoniale.

Alla luce di tutto quanto esposto, possiamo concludere questo breve documento – che non ha avuto pretese di esaustività, in un campo così delicato e complesso, ma che è stato comunque rigoroso nella sua esposizione – riprendendo l’analogia del titolo del post:

sempre più spesso le cifre riportate nei bilanci bancari – ed il tanto sbandierato CET1 ratio non fa alcuna eccezione! – sono tanto attendibili quanto lo sono le promesse elettorali di un Cetto La Qualunque!

Ciò sia detto a conferma, se ve ne fosse stata necessità, di tutte le riserve già espresse in materia nel precedente post intitolato Il vaso di “Bancora”: brevi note sul credito deteriorato delle banche e sui più che legittimi dubbi circa i numeri ufficiali .

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter