Fra i pochi che ci hanno azzeccato, ci sono anche quelli della prolifica casa editrice Mimesis. A fine giugno, al termine delle primarie statunitensi, quando ancora il duello Trump-Clinton doveva accendersi, è stata lei, infatti, a pubblicare coraggiosamente “Perché Vince Trump”, sorta di pamphlet dell’analista americano Andrew Spannaus che conosce molto bene anche il nostro paese, dato che ci vive da quasi vent’anni.
Mentre i sondaggi cominciavano (come al solito) a sbagliare tutto dando sempre in vantaggio, per la conquista della Casa Bianca, la signora Clinton e i media convenzionali (come al solito) si limitavano ad analisi superficiali concentrandosi sull’impresentabilità di Donald Trump, c’era anche chi come Spannaus – fondatore, tra l’altro, del servizio www.transatlantico.info – prevedeva, al contrario, il successo del candidato repubblicano.
Mentre la maggior parte dell’opinione pubblica era convinta che Trump non avrebbe superato le primarie, Spannaus ne aveva intuito da tempo, oltre che le grandi capacità persuasive, la disponibilità a rappresentare le diffuse ed esplosive istanze, proteste, rivendicazioni anti-sistema dei suoi connazionali.
In realtà, l’analisi di Spannaus si è dedicata anche alla figura di Bernie Sanders che in qualche modo si ricollega a quella di Trump, sebbene apparentemente opposte. Spannaus ha, infatti, colto il riallineamento dell’elettorato statunitense: la divisione sta andando ormai da democratici-repubblicani a establishment-outsider. Trump e Sanders sono entrambi degli outsider, seppur settantenni e completamente dissimili: supermilionario e star televisiva che predilige la provocazione e l’insulto pur di attirare l’attenzione su di sé, etichettabile come fascistoide, razzista, misogino il primo e dichiaratamente socialisteggiante il secondo, vecchio attivista di sinistra che si batte da decenni per l’uguaglianza e contro le discriminazioni. Eppure alla base del voto, sostanzialmente di protesta, che li avvicina ci sono elementi che affondano le radici nella stessa crisi economica e sociale che accomuna, di fatto da anni, le differenti componenti della società americana bianca dalla middle class in giù.
Intorno alle sparate su cui si focalizzano i media, ignorando colpevolmente il resto, Trump ha costruito un discorso netto e preciso: la difesa dei posti di lavoro americani. Quarant’anni di deindustrializzazione, d’altronde, hanno tremendamente impoverito la classe media lavoratrice. Il muro divisorio con il Messico annunciato (per ora solo in campagna elettorale) dal nuovo presidente degli U.S.A. si accompagna alla condanna della delocalizzazione manifatturiera oltreconfine, logica alla base anche della messa in discussione del Nafta e del TPP, mentre l’attacco alla Nato e alle guerre in Medioriente parte dall’assunto che non si possono spendere milioni di dollari laggiù quando in patria crollano le infrastrutture. Temi sostanziali che superano addirittura a sinistra i progressisti, e portati avanti, seppur con toni e interpretazioni differenti, pure dal socialista Bernie Sanders.
Alla luce del risultato di questa notte, si può senz’altro affermare che Spannaus ci aveva visto lungo.
Qui in Italia, Beppe Grillo ha stuzzicato i media accusandoli di essere rimasti ancora una volta indietro perché la partita locale e internazionale non sarebbe più fra le normali rappresentanze politiche, bensì fra sistema e anti-enstablishment. Il successo del Movimento 5 Stelle, la Brexit e il trionfo di Trump sembrano dare ragione a Grillo e a Spannaus per il quale bisogna ormai superare la vecchia divisione repubblicani-democratici: del resto, Donald Trump è riuscito a vincere avendo contro il suo stesso partito (a cui non è mai appartenuto), oltre che media e istituzioni finanziarie.