Il CorsivistaLe Piazze Margherita del mondo

Un corpo insanguinato attaccato a una testa fracassata da una chiave inglese o forse una spranga di ferro. Viene preso di forza e trascinato sull’asfalto come un trofeo in tutta la sua penuria di v...

Un corpo insanguinato attaccato a una testa fracassata da una chiave inglese o forse una spranga di ferro. Viene preso di forza e trascinato sull’asfalto come un trofeo in tutta la sua penuria di vita. È questo –senza ombra di dubbio- il dettaglio più ripugnante sull’omicidio di Emanuele Morganti. Un particolare che va oltre la violenza perché mostra il becero vanto dell’atto che l’ha messa in moto. Il trofeo, il bottino, la medaglia. La dimostrazione di forza. Nelle risse fuori al bar, come nelle guerre.

Di posti come Piazza Margherita, in cui Emanuele è stato massacrato, ce ne sono tanti. Posti in cui il degrado culturale avvolge tutto. Dove se incroci lo sguardo di un altro più del dovuto rischi di sentirti dire: “che cazzo ti guardi?”. Esiste la malata convinzione, in quelle piazze, per cui l’affermazione sociale passi per la mera prepotenza: o la assecondi o la combatti. Emanuele probabilmente sapeva che alzando la voce stava rischiando qualcosa (e c’è anche chi dice che avesse dei conti in sospeso con i suoi assalitori). Ma in un Paese in cui anche i mafiosi si riuniscono per decidere se uccidere o meno un creditore, la fine di Emanuele è un fatto che va al di là di ogni movente.

È la dimostrazione tangibile di quanto poco possa valere la vita in quelle piazze e del fatto che l’odio sia un sentimento con cui questi animali hanno sempre avuto a che fare. Conosco bene la zona di Emanuele, un territorio di frazioni annoiate e incattivite in cui le risse somigliano a battaglie. In passato mi è capitato di essere testimone diretto di svariate spedizioni. Si partiva uniti, dalla piazza (cosicché tutti potessero vedere) con le macchine incolonnate e dentro ogni macchina ci stavano quattro o cinque persone. Si andava per fare a mazzate nei pomeriggi più afosi d’estate. I motivi di questi raduni erano sempre futili. Si partiva per noia, per farli tutti neri quelli del paese accanto. Per affermare –in definitiva- la supremazia di una città. Ci fu uno scontro (era forse agosto del 2002) in cui i ragazzi del mio paese, che erano partiti a fare la guerra, tornarono dopo qualche ora a suon di clacson, come se avessero vinto il mondiale. Il più grosso del gruppo capeggiava la fila di macchine, sventolando dal finestrino una maglietta bianca visibilmente insanguinata, che poi scoprii fu strappata di dosso ad un ragazzo tra i tanti altri picchiati del paese accanto. La maglietta fu appesa su un lampione della piazza a segnalare la conquista, l’espugnazione di un territorio nemico.

Oggi la piazza non è più solo un posto fisico. C’è anche il web e ci sono altri tipi di violenze, che quando non uccidono, rubano l’anima. È la sofferenza 2.0. . Succede a Chicago, dove una 15enne è stata violentata durante una diretta Facebook, o a Vigevano dove un ragazzino è stato costretto a bere fino a ubriacarsi e a girare per le vie della città con una catena al collo, portato al guinzaglio dai suoi vessatori. Come un trofeo da esibire, come il corpo sanguinante di Emanuele, macinato e poi trascinato in strada, in nome del seme atavico di Achille, che per orgoglio, macchiò il suo nome trainando le spoglie di Ettore davanti le mura di Troia.

Eppure la storia, come la morte di Emanuele non insegna niente. L’odio si perpetua, si rigenera e si trasforma in vendetta. In queste ore i familiari dei due fratellastri, accusati di aver causato la morte del ventenne ciociaro, hanno dovuto lasciare Alatri perché hanno paura: una loro auto è stata bruciata e sono giunte loro minacce di morte. Non c’è spazio per il perdono, non c’è tempo per un rispettoso silenzio. È sempre tempo di esercitare la forza nelle Piazze Margherita del mondo.