Il successo di Emmanuel Macron, forse il prossimo presidente della V Repubblica francese, avviene al culmine della crisi sistemica dell’Unione Europea.
Macron, tra i contendenti per l’Eliseo, possiede il profilo più adatto a promuovere l’Europa neo-carolingia, capace di corazzare l’antico accordo, mai contrastato, tra Germania e Francia; ma anche di mettere al riparo il continente dai pericoli micidiali che lo insidiano: le isterìe “sovraniste”, l’insorgenza russa a Est, la depressione dei paesi latini, sostanzialmente irriformabili, fatta eccezione per la buona performance – momentanea – della Spagna.
In Francia, la scelta delle élites, cimentosa ma calcolata, non poteva che cadere sul brillante fondatore di “En Marche!”, in virtù della sua estraneità ai partiti tradizionali e della sua provenienza dall’establishment finanziario.
Un’accelerazione vistosa che non si vedeva da tempo, in una fase storica caratterizzata dalle dualità “città/campagna”, “centro/periferia”, “inclusione/esclusione”, le vere incubatrici dell’odio verso la globalizzazione.
Il Regno Unito esce dall’unione politica non per ragioni economiche, peraltro eccepibili, quanto per la sua natura di partner atlantico, nonostante la decisione sia ancora oggetto di aspra contesa fra le stesse élites.
I paesi del Sud Europa languono: in Italia, la leadership senza alternative di Matteo Renzi è scossa dal risultato referendario, la Grecia è morta, la Spagna ha un governo caduco.
Le Cancellerie europee studiano molti dossier: il terrorismo, il programma di Quantitative Easing di Draghi (che prima o poi finirà), la Russia, la Turchia, la Siria, la questione dei rifugiati, il rapporto con la Cina e gli Stati Uniti, le relazioni commerciali nel Mercantilismo che cambia.
Temi che si intersecano tra loro.
Il buon risultato del primo turno di Macron, già indipendente del governo socialista uscente, è paradigmatico della inaspettata vivacità e della plasticità mentale con cui le élites dimostrano di poter governare anche la nuova Europa di tipo “regionale”.
Governare, non ispirare. E con estrema rapidità.
“En Marche!” è stato costruito nel medio periodo ed è imperniato su un europeismo effettivo, non di facciata, con un’immagine lontana dalle fattezze tecnocratiche dalle quali pure promana, occidentale, atlantico, blairiano, lib-lab, un modello che sarà replicato similmente in altri paesi, con sfumature diverse.
Un nuovo ordine di cose, politico e non anti-politico, con un programma indifferibile: repèllere i nuovi nazionalismi, difendere la moneta unica, assicurare l’equilibrio del continente per mezzo di tre/quattro blocchi geopolitici (carolingio, mediterraneo, baltico-orientale), mantenere i livelli essenziali di coesione politico-sociale con un welfare sostenibile, prepararsi all’estensione sul lungo periodo del terrorismo jihadista, governare il conflitto sociale violento negli ambiti urbani.
Chi fallisce, entra quasi automaticamente nell’orbita putiniana, molto attenta e attiva in ordine alla politica e alle elezioni occidentali.
Tutto ciò presuppone che assurgano a paesi di testa, di rango, solo quelle comunità nazionali capaci di auto-riformarsi velocemente, a livello centrale e periferico, per quanto concerne il diritto, la sicurezza, la politica.
Una rivoluzione, dai contorni non ancora evidenti, coniugata con concetti come resilienza e rapidità.
Rendendo attuali i propositi di Herder, si potrebbe dire che “…quando un progetto finalistico sta per fallire, chi possiede il discorso sa come cangiarne le forme”.
Nella foto: Johann Gottfried Herder (Morąg, 25 agosto 1744 – Weimar, 18 dicembre 1803)