Da pochi giorni la Gran Bretagna ha iniziato l’iter di uscita dall’Unione Europea. A sentire molti un fatto non preoccupante, da imitare quanto prima. Una scelta ben vista da persone, anche amici, che sognano di esportare con semplicità le proprie eccellenze oltre le Alpi, senza la pesantezza di una moneta giudicata troppo “tedesca”. Operazione che permetterebbe finalmente di tornare all’italico escamotage usato dai governi della Prima Repubblica, la svalutazione della Lira quando lo si vuole o quando se ne ha bisogno. Esportazioni che nell’idea di non pochi italiani farebbero il paio con un’altra idea economica, una moderna autarchia, soluzione di ogni epoca ai mali economici nazionali.
Sono solo alcune delle risposte che nascono dalle tante paure partorite da un’epoca nuova e ancora giovane, nella quale siamo entrati senza rendercene conto e nella quale ancora non riusciamo a mettere bene a fuoco fenomeni e fatti straordinari come le migrazioni di massa e l’ascesa dell’uomo forte (alla Putin, per intenderci). O fenomeni preoccupanti come la rapacità di un sistema finanziario mondiale oggi incontrollabile e la crisi della democrazia occidentale, fino ad oggi governata attraverso lo strumento, sempre più deteriorato, dei partiti politici (dalla Svezia alla Spagna, dalla Germania alla Francia passando per l’Italia).
Sebbene molte preoccupazioni e le finalità di certe richieste siano condivisibili, con troppa facilità ci si sbilancia sul modello Brexit quale migliore soluzione a questi problemi. Eppure il Mercato Comune del Carbone e dell’Acciaio prima e la Comunità Economica Europea poi hanno garantito ad un continente che ha regalato a tutte le generazioni precedenti guerre atroci, 70 anni di pace. E mentre fuori dai confini paesi giovani infiammano tra guerre, repressioni e corruzione, l’Europa discute se richiudersi nei propri confini nazionali o se far squadra, in un mondo ormai grande (solo la Cina conta il doppio degli abitanti dell’UE) e muscolare.
Sia chiaro, la scelta degli inglesi è legittima, nonostante l’Exit abbia trionfato per poche migliaia di voti e nonostante come hanno dimostrato i trend pubblicati da Google UK la domanda più frequente nei giorni precedenti e successivi il referendum sia stata “Cos’è l’UE?”.
Ora resta da capire cosa comporterà concretamente questo atto. Cosa significa tecnicamente e quali saranno i risvolti economici e politici per noi europei.
Innanzitutto nei prossimi due anni l’Unione Europea si troverà a dover contrattare l’uscita di un paese politicamente forte (mai a dir il vero entusiasta della Comunità in cui era entrato) con serrati incontri bilaterali. E contrattare in questa circostanza non significa trovare l’accordo su un punto ma lavorare a suon di battaglie politiche e legali (UE e UK) per un tempo non definito. Di certo nessuno dei due sarà disposto a regalare niente. A partire dall’UE, che chiederà legittimamente il pagamento di circa 60 miliardi di euro al governo inglese. I primi broker puntano su un accordo che oscilla tra i 40-50. Vedremo. Spese che riguardano il budget UE per il quale il governo britannico ha firmato un impegno, le pensioni a tutti i dipendenti britannici nelle istituzioni UE, le garanzie sui prestiti e le spese per i progetti europei in Gran Bretagna. Si tratta solo dell’inizio, perché le questioni economiche e commerciali saranno numerose e si prevedono affari d’oro per molti studi legali del vechio continente.
Una pura contrattazione su ogni aspetto economico e commerciale. Nella migliore delle ipotesi ci saranno aspetti dove l’UE la spunterà e altri dove l’UK otterrà maggiori risultati. In totale dovrebbe durare due anni ma difficilmente in questo lasso di tempo si riusciranno a trovare tutti gli accordi necessari. Già questo basterebbe per essere sin da ora preoccupati. Per un bilancio economico vero e proprio comunque serviranno anni.
C’è poi il risvolto politico: almeno triplice. Il primo riguarderà le frizioni che nasceranno tra i paesi europei e la Gran Bretagna. Non tarderanno ad arrivare e anche i toni, nel migliore dei casi, non saranno amichevoli. Capita nelle separazioni e capiterà probabilmente in questa separazione. Speriamo ci si fermi al lancio di qualche piatto. Il secondo riguarda il ruolo di un paese che entrò nella Comunità Economica Europea solo nel 1973, dietro anni di sollecitazioni da parte dei paesi europei e tanta diffidenza dal paese di Sua Maestà. In quegli anni il paese viveva una crisi sociale e politica (senza contare la guerra nel Nord Irlanda) che ne avevano fatto un paese bloccato e irriformabile preambolo della violenta e memorabile cura che l’attenderà negli anni di Margaret Thatcher. Oggi questo paese ha un tasso di disoccupazione del 5% (per gli italiani, 11,5% e gli spagnoli, 22,7% un sogno) ma invece che concentrarsi su quello che è uno dei mali della società contemporanea, ovvero la redistribuzione della ricchezza prodotta e la lotta alle disparità economico e sociali, battaglia per la quale difficilmente si può fare da soli, individua come soluzione al male delle “paure moderne” l’uscita dall’UE, con l’improbabile sogno di ritagliarsi il ruolo di cervello dei paesi appartenenti al vecchio impero britannico.
Terzo risvolto politico. L’Europa non ha più scuse. L’uscita della GB, da sempre freno ad ogni ulteriore sviluppo dell’UE, sancisce la fine di tutte le incertezze di questi ultimi 12 anni, iniziate con la presidenza Barroso alla Commissione Europea. E non a caso il dibattito europeo oggi ruota intorno all’idea dell’Europa a due velocità, dove l’unione politica, la difesa e la fiscalità dovranno avere un comun denominatore affinché l’euro venga difeso non da tecnocrati, troppo spesso al servizio di questo o quel paese, ma da rappresentanti votati dai cittadini di quella che dovrà essere (o non sarà!) una nuova Unione.