Passione, duro lavoro e scrittura. La creatrice e showrunner della serie “The Path” si racconta a Linkiesta
Amo scrivere. Scrivere per me è un modo per – sembrerà banale dirlo – scavare sotto la superficie delle cose. Indagare il non-detto, capire a fondo le ragioni di uno sguardo o di un sussurro e vedere come dalle piccole interazioni mascherate e illusorie che trapuntano le nostre giornate sboccino i ricami di grandi storie. Questa esplorazione è partita con le serie tv. Da piccolo – quando i telefilm americani erano considerati “cose stupide da ragazzini scemi” e gli intellettualoidi esperti dell’ultima ora li snobbavano – rimasi folgorato da queste grandiose narrazioni, sorrette da una recitazione, una sceneggiatura, una regia e una fotografia impeccabili. E cominciai davvero a interessarmi alla lettura. Non più tentativi forzosi imposti dagli insegnanti, ma finalmente un piacere, un modo per ritrovare sulla carta quello spessore e quella profondità che assaporavo in tv. E di conseguenza arrivò la scrittura, questa piacevole maledizione che un giorno ti regala pagine bellissime, che non riesci a credere abbia partorito tu, e l’altro ti appioppa tanti dubbi e brutti grovigli incolori di frasi che ti incendiano di vergogna. Una maledizione che – insegna il grande Junot Diaz – può regalare il successo, il coronamento dei sogni di pubblicazione (e di prestigiosi riconoscimenti letterari), anche dopo tantissimi anni di pagine orribili e frustrazioni. Questa lotta costante con la scrittura, questa forsennata ricerca di parole e ritmi che meglio fotografino l’essenza dei piccoli gesti e delle interazioni, di quella vibrante complessità sotto le apparenze, la conoscono bene gli sceneggiatori di serie tv, che scrivono, riscrivono e riscrivono ancora, talvolta anche fino al momento di girare. La riscrittura, come testimonia Andy Bobrow, autore delle sit-com “The Last Man On Earth” e “Community”, è la soluzione a tutti i problemi di “shitty writing” e ti avvicina sempre più al nerbo, al fulcro del grande messaggio sotteso al racconto. Così ho deciso di fare una chiacchierata con chi ha fatto di queste mie passioni, e di questi miei piccoli, grandi crucci, un mestiere, per capire quanto struggimento, quanta fatica e quanto amore per le storie ci siano dietro. Mi sono rivolto a Jessica Goldberg. Diplomata alla Juilliard School e laureata in scrittura drammaturgica alla New York University, lavora da tanti anni come autrice di serie tv. Dopo aver scritto e prodotto diversi episodi di “Deception”, un murder mystery di 11 puntate, di “Camp”, il dramedy NBC dell’estate 2013, e di “Parenthood”, il family drama NBC che da noi partì in pompa magna nella prima serata di Canale 5 nell’estate 2011 e di cui è in onda un remake italiano in questi giorni su Rai 1, ha creato il serial “The Path” per Hulu, la streaming tv rivale di Netflix. Una brillante commistione di family drama, mystery e religious e mystical drama che, annoverando nel cast attori di spicco come Hugh Dancy, Aaron Paul e Michelle Monaghan, le ha valso gli elogi della critica televisiva e cinematografica internazionale. Tutto ruota attorno al movimento religioso dei Meyeristi, che si raccolgono in un piccolo villaggio bucolico seguendo le regole del Dr. Steven Meyer, il fondatore. La storia viene raccontata dal punto di vista di Eddie e Sarah Lane, il primo con un passato burrascoso alle spalle, e la seconda nata e cresciuta in una famiglia di Meyeristi. Da noi la serie è su Amazon Video.
“The Path” è una brillante, straordinaria serie che unisce family drama, mystery ed elementi religiosi e mistici. Come ti è venuta l’idea? Prima di fare il pitch (presentazione alla rete televisiva per vendere la serie, ndr) a Hulu, hai scritto un concept e una bibbia (il documento che raccoglie tutte le linee narrative e descrive i personaggi che la serie andrà ad esplorare, ndr)?
“Grazie! Sono sempre stata interessata alla fede e alla religione – ne sono stata affascinata ma anche inorridita. Sono cresciuta nella piccola cittadina di Woodstock, NY, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, era un posto che attraeva trovatori e anche un vero e proprio centro per religioni davvero poco tradizionali. Avevamo i Rainbow People, i Sufi indiani e i seguaci di Rajneesh. Ricordo che da bambina trovavo tutto così misterioso ed evocativo. Molti anni dopo, da adulta, quando già lavoravo come scrittrice di serie tv a Los Angeles, ho passato un periodo davvero bruttissimo: ho perso un genitore a causa del cancro e ho divorziato. Mi sono chiusa dentro una stanza e ho scritto questa sceneggiatura stranissima che ha finito per diventare “The Path”. Penso che quello scritto fosse un mix delle diverse cose che ho visto e vissuto nella città da cui sono venuta e anche una profonda esplorazione delle grandi perdite che mi hanno colpito in quel momento. La storia di “The Path” non ha davvero niente di tradizionale. Io ho scritto una sceneggiatura da spedire a tutti i potenziali acquirenti. L’ho fatta leggere al mio capo di allora, Jason Katims (suo boss in “Parenthood”, ndr). L’ha amata e insieme l’abbiamo mostrata in giro con un abbozzo delle trame della prima stagione.”
Qualche settimana fa Hulu ha trasmesso il finale della seconda stagione di “The Path”. Puoi anticiparci qualcosa sul futuro della serie? Cosa succederà adesso? E quante stagioni pensi di realizzare?
“Io penso che l’ideale, con una serie come questa, sia arrivare fino alla quinta stagione. Avere cinque stagioni ci darebbe abbastanza tempo per raccontare davvero l’intera storia della nascita della religione e permetterebbe ai personaggi di crescere e cambiare davvero (in meglio o in peggio). Quanto alle anticipazioni, posso dirti che Eddie è finalmente tornato e che i segreti dei primi tempi del Meyerismo saranno rivelati…”
Com’è il tuo ‘writing process’? Come scrivi? Che tipo di scrittrice sei, una che considera scrivere difficile o che invece lo trova un piacere?
“Quelli che dedico alla scrittura li considero i momenti migliori, ma anche i momenti peggiori. Ma veramente! Mi sento sempre scoraggiata davanti alla pagina bianca, iniziare è un inferno, e poi c’è un punto intorno al quarto atto dove i personaggi iniziano finalmente a parlarmi e a prendere vita da sé, e in quei momenti lì mi diverto. Per divertente che suoni, è la cosa più vicina a un’esperienza religiosa che abbia avuto.”
Come funziona la scrittura, invece, all’interno della Writers’ Room, la stanza degli scrittori? Come vi dividete il lavoro e riscrivete le sceneggiature fino a ottenere gli shooting script?
“La nostra ‘room’ è molto democratica. Ci riuniamo cinque giorni a settimana, per circa sette ore al giorno, e studiamo, costruiamo e scalettiamo ogni episodio insieme. Poi a uno scrittore viene affidata la stesura dell’episodio. Dopodiché, a script ultimato, facciamo note, correzioni e riscritture, e si va avanti così fino al momento di andare in produzione. Gli scrittori di “The Path” di solito producono anche gli episodi che scrivono. Lavoriamo al fianco dei nostri registi per ottenere al meglio lo stile visivo dello show.”
Oggi, le serie tv americane, per la qualità raggiunta nel corso degli anni, sono paragonate ai romanzi. Condividi questo paragone? Ti consideri una romanziera, una moderna Charles Dickens?
“Haha! Mi è appena capitato di citare Dickens. Mi piacerebbe tanto essere una moderna Dickens… Però sì, capisco e condivido il paragone. Per la televisione si scrivono storie di personaggi complessi e ricchi di sfumature, storie che devono spingere il pubblico a voltare la proverbiale pagina…”
Come viene vista e considerata la tv italiana negli Stati Uniti, e soprattutto le nostre serie televisive? Ne conosci qualcuna?
“In verità guardo davvero poca televisione, e non sono molto ferrata in serialità italiana. Poi mi consigli qualche serie? Comunque, sono molto eccitata perché ho sentito che la HBO sta adattando i romanzi di Elena Ferrante, e guarderò senz’altro quella serie!”
Quali sono le qualità essenziali che ogni aspirante scrittore di serie tv, italiano o americano, dovrebbe avere? Che consiglio daresti a coloro che volessero creare una serie televisiva?
“Il mio consiglio pratico è di non lasciarvi scoraggiare. Riceverete un sacco di rifiuti, un sacco di note e correzioni che sembreranno folli, progetti che sembreranno sul punto di concretizzarsi ma invece sfumeranno, e tutte quelle cose che vi spezzeranno il cuore e a cui non sarete mai sufficientemente preparati. Uno scrittore deve perseverare. Artisticamente parlando, direi di accertarvi che i personaggi che state creando siano vivi, che respirino e siano esseri umani. Non importa quanto avvincente e sensazionale sia il vostro concept: senza che la condizione umana sia posta al cuore della storia, è difficile che si possa mettere in piedi una serie tv. E direi anche di pensare a quello che di unico avete da dire, e al modo unico in cui potreste dirlo. La vostra storia unica e la vostra voce unica faranno in modo che il vostro lavoro si separi dalla pila di script sottoposti all’attenzione di produttori e dirigenti televisivi e spicchi in tutta la sua brillantezza.”