Come spesso accade, quando qualcuno vince c’è chi è abituato a stare comodo sul carro, c’è chi prova a salirci dopo mesi o anni di dubbi e c’è chi resta ostinatamente a terra. Succede perché alcuni vincitori non riescono a mettere d’accordo tutti e sono così destinati sempre e comunque a dividere. Prendiamo quel che è successo a Stoccolma, nella finale di Europa League. Se avesse vinto l’Ajax, i giornali e i siti specializzati sarebbero un enorme srotolamento di tappeti per il tecnico Bosz, giunto alla prima vittoria europea in carriera dopo aver riportato in finale i “Lancieri” che mancavano da una gara così importante da 21 anni, grazie anche a una sorta di ritorno alle origini. Già, perché a un anno dalla morte del grande Cruyff, la squadra di Amsterdam si è rimessa in pari con quel destino al quale non sembra dover sfuggire mai: attenzione ai giovani, calcio totale, attaccare è la miglior difesa. Insomma, sarebbe stata una vittoria giornalisticamente gustosa, gustosissima.
Invece ha vinto José Mourinho, con un calcio molto più pratico ma efficace. Il Manchester United non ha brillato per fluidità o spettacolo, ma ha portato a casa l’unico trofeo continentale che le mancava, centrando la qualificazione alla Champions che le era sfuggita con il sesto posto finale in Premier League. Già solo questo dato basterebbe ad inquadrare come l’approccio alla finale ed a tutta la competizione sia stato tipicamente “Mourinhano”: bisogna tornare nel torneo europeo più ricco e importante e il fine giustifica l’atteggiamento, così che a un certo punto José si è reso conto che in campionato non ce n’era ed ha puntato tutto sull’Europa League. Un rischio calcolato, nel quale la sorte propizia di non aver incontrato quasi mai avversari realmente più forti almeno sulla carta si è unita alla capacità prima di tutto psicologica del portoghese di fare leva sulla testa dei propri giocatori.
Il punto di divisione tra fan e avversari di José in fondo si innesta proprio qui, nel fatto che si tratti solo di un grande comunicatore, un fine psicologo. Un grande allenatore è anche questo in realtà, ma non solo. Mourinho è un tecnico pratico, che quando deve centrare un obiettivo non si perde in tatticismi arditi, né ha la pretesa di cambiare il calcio, sebbene verrà ricordato. Mou è uno che sta al di fuori dei destini segnati di certi allenatori o certe squadre, che appena provano a sfuggire dal Totaalvoetbal o dal Tiki taka finicono per sgonfiarsi come soufflée venuti male; o che al contrario se si incaponiscono su quel modo di giocare, non si rendono conto di poter vincere sempre, perché c’è un tempo per tutte le cose, schemi e modi di giocare compresi. Così, mentre (per fare un nome a caso) Guardiola si sta scervellando per capire come trarre il massimo dallo sfruttamento dei cosiddetti Half spaces, cercando di imporre palla a terra e movimenti calcolati al millimetro in un calcio soprattutto fisico, José si è concentrato sull’Europa, riportando alla vittoria continentale una squadra di Premier senza snaturarne quei cardini fatti di strapotere fisico ed aggiungendo semplici ma efficaci ordini tattici. Uno su tutti: Fellaini sulla carta basso a centrocampo, ma in realtà messo nella prima parte di gara ad aggredire Schone – cioè il regista basso dell’Ajax – per far ripartire l’azione e scoraggiare così la veemenza dei giovani olandesi. La maggiore prestanza fisica ha fatto il resto. Stop.
Al primo anno, così, a fronte di una Premier poco esaltante Mourinho ha messo nella bacheca dello United tre trofei; Community Shield, Coppa d’Inghilterra ed Europa League. Salvando così anche il contratto con l’Adidas, che in caso di mancata qualificazione alla Champions avrebbe decurtato del 30% l’accordo da 94 milioni annui di sponsorship tecnica con il club.
Solo un grande comunicatore, eh?