La ormai nota vicenda delle nomine di alcuni direttori stranieri di musei italiani, bloccate dal Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio, ha dato il la alla più ampia diatriba circa l’operato dei giudici amministrativi: i TAR sono dei “Signor No”? Occorre cambiarli, come ha dichiarato il Segretario del Partito Democratico a più riprese? Sono, in sostanza, un ostacolo allo sviluppo del Paese? Tralasciando la specifica questione legata alle nomine, sulla quale ben difficilmente il TAR del Lazio avrebbe potuto pronunciarsi diversamente, alla luce delle disposizioni Italiane circa la cittadinanza dei dirigenti pubblici, può essere utile inquadrare il tema in maniera più ampia, lasciando sullo sfondo tifoserie e partigianerie varie, ma interrogandosi sul funzionamento del sistema. Intanto: ma a che serve il giudice amministrativo? Non si tratta di un casellante che abbassa o alza la sbarra, vietando o scomunicando a piacere, ma è colui o colei che giudica sui ricorsi, proposti contro atti amministrativi delle pubbliche amministrazioni, da privati che si ritengano lesi in un proprio interesse legittimo. Ci si rivolge al TAR in primo grado e, eventualmente, al Consiglio di Stato in secondo grado. Due sono, dunque, gli elementi da evidenziare. Il primo: come ricorda la Costituzione (art. 103), ci troviamo in un ambito giurisdizionale che mira a tutelare il cittadino che lamenti una lesione da parte delle pubbliche autorità. Il secondo: il giudice amministrativo si pronuncia sempre e solo a seguito di un ricorso da parte di un cittadino (a parte la funzione consultiva del Consiglio di Stato per il Governo, naturalmente). Non si tratta, quindi, di consessi di spiritati che si pronunciano ad capocchiam su qualsiasi cosa balzi loro in mente, ma di magistrati, vincitori di pubblico concorso, che rispondono alle sollecitazioni dei privati nei confronti di possibili comportamenti della P.A. non rispondenti a dettami di legge.
Il Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, riecheggiando quanto sostenuto dall’Associazione dei Giudici Amministrativi, ha ricordato che “non tutte le leggi sono ben fatte […]. C’è un problema di chiarezza, ma anche delle scelte di indirizzo generale che deve fare la politica. Il giudice amministrativo si occupa solo di atti e di provvedimenti. Che talvolta riguardano l’attuazione di scelte politiche. Il rischio è che il dibattito sulla giurisdizione sia la prosecuzione del dibattito politico”. Insomma, il giudice amministrativo si occupa della tutela giurisdizionale nei confronti dell’esercizio del potere pubblico, senza sconfinare in analisi e valutazioni politiche o metagiuridiche. La politica, dal canto suo, scriva poche e chiare leggi, limitando, conseguentemente, attività non lineari della P.A. e, a ruota, le rivendicazioni dei cittadini. Allora, “cambiare i TAR”, cosa significa in concreto? Intervenire sui collegi e/o sull’organizzazione? Limitare i casi in cui il giudice amministrativo possa pronunciarsi? Cambiare la Costituzione? È evidente che la questione non è così semplice come possa sembrare da alcune pagine di giornali e che sono in gioco interessi costituzionalmente protetti, per tacer del fatto che – recita l’art. 101 della nostra Carta – i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Questo non significa, beninteso, che i magistrati non sbaglino. O che le sentenze non siano criticabili. Se il sistema prevede diversi gradi di giudizio, nonché l’eventuale ricorso a sedi sovranazionali, è esattamente in quanto i magistrati sono donne e uomini e, in quanto tali, potenzialmente fallaci. Sono, altresì, criticabili le sentenze, sulle quali è perfettamente legittimo esprimere opinioni, possibilmente non a corrente alternata. È certamente condivisibile quanto, ancora, sostiene Pajno: “talvolta si confonde il medico con la malattia. Si pensa che sia meglio intervenire sulla giustizia amministrativa, mentre la malattia sta soprattutto nella complicazione delle leggi, nella loro farraginosità, nella mancanza di qualità dell’amministrazione e talvolta nella difficoltà delle imprese ad accettare le regole di concorrenza negli appalti. Queste sono le vere patologie che andrebbero curate a monte”. Nessuno è esente da pecche: il sistema dei pubblici poteri in Italia non è esattamente il Paradiso in terra.
È altrettanto doveroso ricordare, tuttavia, la commistione che è esistita in passato e che in gran parte continua oggi, fra funzione giurisdizionale e amministrazione attiva. In parole povere: la presenza assai significativa di magistrati amministrativi, corteggiatissimi dalla politica, all’interno dei Gabinetti e degli Uffici Legislativi dei ministeri quanto ha inciso sulla costruzione di provvedimenti normativi e sulla conseguente litigiosità sugli stessi? E quanto è opportuno che chi è chiamato a giudicare dell’operato della P.A. sia, in momenti diversi, protagonista nella gestazione e formulazione di quelle norme che potrà in un secondo momento valutare indossando la toga? Tutti colpevoli allora, persino il cittadino cui prudono le mani e corre innanzi al TAR per ogni piccola magagna? No, per nulla. È un sistema complesso, fatto di regole e di tutele il cui funzionamento va migliorato: tutto è perfettibile. Senza strabismi pelosi, tuttavia. Se il sistema funziona correttamente, è un formidabile lubrificante per i diritti dei cittadini, per il funzionamento della macchina pubblica, a garanzia di chi fa impresa. Senza frettolosi tratti di penna e, soprattutto, senza le solite, velenose polemiche da cortile: quel sistema siamo noi.