Ieri mattina alle 08.30 stavo leggendo un articolo sull’anniversario della rivoluzione bolscevica, dieci ore dopo mettevo piede dentro una palestra, quindici anni dall’ultima volta.
Quindici anni fa era un tempo in cui le palestre non erano un posto quotato all’interno della società, difatti i frequentatori della palestra erano culturisti in perizoma tra cui uno spogliarellista chiamato “er Melanzana”, altra gente simpatica con cui parlavamo sempre di calcio ma che probabilmente aveva fatto la galera visti i tatuaggi (esempio di tatuaggio: piccolo corpo di donna con nome, eseguito con mezzi di fortuna), un giovane marocchino che aveva una storia di solo sesso con una giovane italiana molto in carne anch’essa iscritta e che veniva sputtanata da lui pubblicamente, eccetera. E poi c’eravamo io, Dario e Domenico che ci eravamo iscritti insieme e che mai in quell’anno di palestra abbiamo ricevuto dal titolare un consiglio su come eseguire un esercizio (difatti mi feci male poco dopo). Detto questo ho sempre pensato a quell’anno in palestra come ad un errore di gioventù: avevo 16 anni, ero entrato in crisi con il calcio, litigavo sempre con mia madre, ero pieno di brufoli, quell’anno fui pure bocciato a scuola.
Perché quindici anni dopo sono rientrato in una palestra? Perché ho una contrattura al piriforme e se corro mi fa ancora più male, quindi visto che mi veniva regalato un mese di palestra ho pensato bene di approfittarne e provare qualcos’altro (per i miei amici del calcetto: scusatemi ma anche il calcetto mi fa male).
Chiaramente non dirò il nome della palestra visto che è un regalo e per un mese dovrò ancora andarci. Non dirò dove si trova. Dirò solo che entrato in quel luogo disumano di gente con le cuffiette che suda ho capito una cosa: che i miei simili stavano facendo i pesi, e che io avrei dovuto fare i pesi come loro per sentirmi meglio, ma purtroppo Dio non mi ha permesso di essere coordinato e non so cosa farci con un peso in mano. Allora mi sono diretto nella sala dove si teneva la lezione delle 18.30, cioè un corso di condizionamento muscolare con esercizi di tonificazione con attrezzi. Ovviamente nella sala erano tutte donne, l’istruttrice era donna e c’era solo un uomo ed entrambi ci siamo guardati chiedendoci l’un l’altro chi era l’omosessuale tra i due.
Mi sono presentato alla giovane e magra istruttrice più tatuata di me, che mi ha detto di prendere un Bosu, dei pesi e un tappetino ed è partita la playlist che era un mix della peggiore musica che potevi ascoltare quando mettevano il Tagadà in piazza durante la festa di Tor Sapienza (ho ancore nelle orecchie oltre a “Papi Chulo” anche “El Tiburon” e “Mueve la colita”) e sono entrato nel mio incubo personale fatto di pensieri ossessivi. Perché mi trovavo in quella sala? Perché mi trovavo in una palestra in cui era chiara l’applicazione radicale della teoria del gender? Perché ero così scoordinato? La giovane diciottenne davanti a me stava pensando che ero un maniaco sessuale? Perché nello spogliatoio uno aveva detto ad un altro “Almeno non sei costretto a rushare come me sul lavoro per consegnare un progetto“? Perché avevo dimenticato l’asciugamano quando tutti avevano un asciugamano?
Mentre dopo dieci minuti l’immagine davanti allo specchio mi presentava un me sudato come Weinstein, l’istruttrice (che in milanese dovrebbe chiamarsi trainer) mi si è avvicinata dicendomi che dovevo stare con la schiena dritta. Ho pensato che potevo mandarla a fanculo e che sono più di trent’anni che mi dicono di stare con la schiena dritta ma non ci riesco e poi avrei voluto dirgli che nonostante era chiaro che le mie compagne di corso erano più brave di me anche io nella vita ne avevo fritti di polpi: a 16 anni già andavo ai rave, frequentavo gruppi extraparlamentari, ero un mezzo ultras e poi a 23 anni già vivevo da solo, ho girato l’Argentina in solitudine e se solo volevamo rimanere allo sport comunque come portiere di calcio ero arrivato in serie D e neanche un anno fa avevo corso una maratona in meno di 4 ore nonostante nei mesi precedenti alla maratona m’ero magnato questo mondo e quell’altro.
Ma non ho insultato la giovane istruttrice. Ho ringraziato e sono entrato in una delle tre modalità che utilizzo quando sono in crisi: fare le cose a cazzo di cane, aspettando che passi il tempo, fingendomi invisibile e disinteressato verso chi mi circonda. L’ora quindi è passata, con io che ovviamente non sono riuscito ad arrivare mai ad un minuto consecutivo di addominali. Poi sono entrato nello spogliatoio e c’era quello delle pulizie, evidentemente arabo ed evidentemente infastidito da quel lavoro e dalla gente che lo circondava.
Andando via l’ho salutato facendogli intendere che capivo il suo odio e che gli ero solidale. Spero che se passerà a Daesh si ricordi di me e del mio sostegno e non mi uccida. Oppure spero di essermi fatto male comunque alla gamba e non doverci più tornare (anche perché la prossima lezione è sugli addominali)