Non conosco i dettagli sul caso di Asia Argento. Sto cercando di informarmi, per costruirmi un’opinione basata sui fatti e non sull’antipatia o sulla simpatia per il personaggio. In casi come questo tendo a non giudicare, soprattutto una persona che dice di essere stata vittima di violenza. Cerco, semmai, di capire. Riguardo alle critiche che hanno coinvolto l’attrice – che avrebbe dovuto denunciare da subito, per non apparire connivente con Weinstein – vi racconto una storia: sono stato vittima di bullismo per anni e per anni ho taciuto di fronte alle violenze che mi venivano fatte a scuola o nei luoghi di aggregazione, dai miei pari. Tacevo e fingevo “normalità” allo scopo di essere accettato. Pensavo anche di meritare quei soprusi. Perché ero debole e avevo paura. E aggiungo: mi sarei sentito uno schifo se, quando ho deciso di reagire all’omofobia che mi circondava, qualcuno mi avesse accusato di complicità con i miei aguzzini.
Ma non solo. La campagna #quellavoltache, nata per merito della giornalista Giulia Blasi – a cui dovrebbe andare tutta la nostra riconoscenza di cittadini e cittadine che hanno a cuore il senso civico del nostro Paese – e portata avanti da Gaypost.it e da Pasionaria.it, sta facendo emergere una realtà di violenze continue, contro i corpi, la psiche e la dignità delle donne vittime di un certo tipo di mentalità: quella di un potere maschile che pensa di poter disporne a proprio piacimento, a seconda istinti e desideri del momento. È angosciante vedere come tantissima gente sta avendo il coraggio e la forza di raccontarsi. Queste persone andrebbero ascoltare e rispettate e tutti insieme, a cominciare da noi uomini, capire cosa si è rotto nel nostro sistema relazionale e impedire che possa accadere di nuovo.
Faccio presente, infine, che mi sorprende il grado di violenza verbale e mediatica contro l’attrice, colpevole di non essere stata all’altezza della situazione. Il fatto che però, a parer mio, sfugge a coloro che producono un certo tipo di critiche è quello che una vittima non sta alla pari del suo carnefice. E se riuscisse ad opporvisi, non sarebbe tale. Non possiamo sapere quali possono essere le condizioni psicologiche di chi subisce un certo tipo di trattamento, per il semplice fatto che non siamo lì quando certe cose accadono. E non esiste, in altri termini, “la vittima perfetta”. Questo atteggiamento, per cui cerchiamo di capire in cosa ha sbagliato la persona oppressa per poi farne unica colpevole non va molto lontano dall’odioso “se l’è cercata” pronunciato all’indirizzo di chi, magari in abiti presumibilmente succinti, attraversava una via al buio e si è attirata le “attenzioni” del violentatore di turno.
Sembra che valga, in altre parole – e lo dice bene la scrittrice Serena Marchi su Facebook – la visione per cui “lei poteva non starci e dire no” quando invece nessuno, mi pare, si soffermi sul concetto che “no, lui non doveva provarci”. Non è una minigonna indossata dopo il calar del sole che spinge l’uomo ad abusare delle sue vittime. Non è l’essere una donna di spettacolo, famosa e più o meno amata, a rendere la violenza subita meno grave. Ci sono le responsabilità oggettive di chi compie dei crimini, di natura sessuale nello specifico. E c’è poi il senso di umanità che sembra essersi perso in vicende come quella che ha coinvolto Asia Argento. E che faremmo bene a recuperare. Perché se vale il discorso per cui “lui comunque può provarci” e “lei non ha saputo opporsi”, un giorno potrebbe valere per le donne che amiamo e che ci sono vicine. E non sarebbe bello per loro scoprire che chi dovrebbe stargli accanto è pronto a giudicarle solo perché non erano più forti della violenza che gli si è abbattuta addosso.