TantopremessoOdiatore e funzionario pubblico? Censurabile due volte

E quattro. Dopo Laura Boldrini, Selvaggia Lucarelli e Myrta Merlino, un’altra donna prende posizione contro gli odiatori del web e passa alle carte bollate: Francesca Barra, giornalista televisiva,...

E quattro. Dopo Laura Boldrini, Selvaggia Lucarelli e Myrta Merlino, un’altra donna prende posizione contro gli odiatori del web e passa alle carte bollate: Francesca Barra, giornalista televisiva, mamma separata ed attuale compagna dell’attore Claudio Santamaria, è stata infatti bersagliata sui social network per la sua presunta vita “sregolata”, con attacchi personali alla coppia e, soprattutto ai suoi figli. Tra i tanti Savonarola da tastiera anche un funzionario della Regione Basilicata che sui social, riportano i quotidiani, avrebbe pubblicato insulti verso Barra ed i suoi figli. Bene ha fatto, dunque, la giornalista a non perdere tempo e denunciare il funzionario, come riporta, fra l’altro, Aldo Grasso sul Corriere di domenica 8 ottobre. L’episodio, riprovevole come tanti altri simili episodi che fanno ormai quotidianamente capolino nelle cronache, ha un elemento di novità: a sparare ad alzo zero sarebbe stavolta un pubblico dipendente, il cui lavoro è quello di fornire servizi ed implementare politiche a favore dei cittadini che, con le tasse, ne pagano lo stipendio. Dal canto suo, il funzionario, in perfetto stile Napalm 51, ribatte: “E che ho scritto di male? Sono personaggi pubblici e non possono pretendere di essere esenti da critiche. Il pomeriggio da casa non posso fare quello che voglio? Facebook mi ha bloccato il profilo ma dovrebbe tornare a funzionare, continuerò a dire quello che penso“. Alt. Mettiamo le cose in chiaro. Il funzionario, al pari di qualsiasi cittadino, è libero di dire o scrivere quel che vuole, scendendo nella pubblica via, parlando da un podio o pubblicando i suoi scritti in rete, purché se ne assuma la piena responsabilità. Qui parla il buon senso e, soprattutto, il codice penale. Non si tratta di una malintesa difesa della libertà di critica o di pensiero: in una società civile insultare per strada o su un social qualcuno espone a conseguenze. Un comportamento ancor più meschino se vengono coinvolte donne o, come in questo caso, dei minori. Egli si difende dicendo di aver dato voce a ciò che pensa dopo il lavoro, al di fuori della sua dimensione pubblica, ma è una difesa che non regge. In linea di principio non c’è nulla di male nell’utilizzare i social network al lavoro, compatibilmente con i doveri del proprio incarico. Anche senza far cenno dell’utilità per ricerche, contatti o aggiornamento di natura professionale, la cosa può essere compatibile con lo svolgimento delle mansioni assegnate: nessuno è un robot e i cinque minuti di pausa sono concessi a chiunque. Il punto è che in questo caso il lavoratore pubblico non esporrebbe motivate ragioni o intratterrebbe relazioni di natura professionale ma rivolgerebbe insulti a terzi, il che rende del tutto inutile rivendicare che lo si faccia in orari extra ufficio. La nostra Costituzione, infatti, ricorda che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54) e, non casualmente, il codice di comportamento dei pubblici impiegati, che riguarda naturalmente anche la Regione Basilicata, dispone che “il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore […], perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare” e che “nei rapporti privati […] non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione”. In soldoni: la casacca di servitore dello Stato non è un mantello che si indossi o smetta a piacimento e i comportamenti fuori dalle mura dell’ufficio sono, nei limiti del rispetto della sfera privata ed in relazione ad altri principi costituzionali, rilevanti ai fini della valutazione della condotta dell’individuo. La parola passa ora alla Regione per i profili disciplinari e, eventualmente, alla magistratura per altri aspetti. Un simile comportamento, tuttavia, è censurabile ben due volte: la prima perché sarebbero stati immotivatamente mossi insulti contro una donna ed i suoi figli, che nulla hanno a che vedere con la legittima libertà di espressione del singolo; la seconda perché si cozza non solo contro i normali principi di civile convivenza ma anche con i doveri di pubblico dipendente, indipendentemente da orari e timbrature, svilendone il ruolo ed esponendo l’intero ente ad un discredito di natura reputazionale. Il web non è un’arena virtuale in cui tutto è permesso e chi serve la comunità deve esserne consapevole quanto e più dei cittadini che con le tasse pagano i servizi cui hanno diritto. Non il diritto di essere insultati, però.

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