Il caffè (s)corretto di Severino NappiIn nome della donna

In principio fu Weinstein, poi Tornatore, ora Brizzi e chissà quante altre storie verranno fuori. Già, storie, racconti più o meno credibili, che sta alle autorità competenti giudicare. Ma a noi co...

In principio fu Weinstein, poi Tornatore, ora Brizzi e chissà quante altre storie verranno fuori. Già, storie, racconti più o meno credibili, che sta alle autorità competenti giudicare. Ma a noi cosa resta e, soprattutto, cosa le tiene insieme? Il grande circo della mediaticità. Nella settimana della giornata internazionale contro la violenza sulle donne credo di averne sentite fin troppe, senza che si sia messo almeno un po’ d’ordine, a partire dalla terminologia. La violenza può essere di vario genere e varia natura, come diverse sono le punizioni previste dalla legge. Allora perché si continua a parlare di violenza sessuale e di stupro, quando prima ancora siamo di tutto di fronte a degli orribili ricatti? Forse perché qualcuno crede che il ricatto a sfondo sessuale nei confronti di una donna, specie da parte di un uomo di potere, sia meno grave? Qualcuno giudica “minori” questi reati, tanto che da credere che possano scuotere le nostre coscienze soltanto se li accompagniamo con l’uso della parola “violenza” o il ricorso a pruriginosi racconti sessuali? Mi dispiace, ma siamo fuori strada. Anzi, il primo cattivo servizio alle vittime lo fa proprio chi cade in questo equivoco, o magari ci gioca addirittura. Sgomberiamo il campo: gli uomini che sfruttano la loro posizione di potere per approfittare di una donna, gli uomini che contrabbandano per galanti avances le aggressioni, gli uomini che perseguitano le donne, gli uomini che lasciano intravedere carriere facili dai loro accappatoi semichiusi sono quanto di peggio possa trovarsi di fronte una giovane che aspira solo ad un posto al sole. Ma esistono nel mondo del cinema, esistono nel mondo dello spettacolo, della politica, dell’imprenditoria, sono in mezzo a noi – anzi ci sono sempre stati – e perciò vanno fermati sul nascere, vanno denunciati subito e vanno colpiti, duramente. Tuttavia, nella triste narrazione di quello che subiscono le donne, questi sono dei capitoli a parte perché poi – o meglio prima – ci sono le violenze fisiche e ancora di più quelle sessuali. Dietro le mura omertose di tante case ci sono orchi che segregano, violentano e picchiano per anni donne che non hanno scampo perché non hanno la possibilità, neanche fisica, di ribellarsi e denunciare. Oppure per le nostre strade si aggirano, da soli o in gruppi, uomini malati che stuprano e poi spesso uccidono donne anche ai margini della pubblica via. Ecco, queste storie che, pure sono quelle più numerose e anche più drammatiche, difficilmente escono fuori dagli echi, locali, della cronaca nera. Questo allora vuol dire che per la nostra società esistono gradi diversi di attenzione o di tutela e donne di serie A o di serie B? Mi rifiuto di accettarlo. Secondo me, invece, esistono condizioni diverse. Di fronte ai ricatti, in molti casi, esiste la possibilità di scappare, di dire no, di uscire, seppur con dolore, da certi contesti, accettandone anche le conseguenze. Esiste, insomma, il distinguo tra una violenza, prima di tutto psicologica, che è diretta conseguenza di un ricatto sessuale o di un tentativo di molestia, ed una violenza fisica che non ti lascia scelta e a volte, in molti casi, ha portato anche alla morte o a conseguenze fisiche permanenti. E poi ci sono le tutele, e cioè quello che uno Stato fa, e quello che dovrebbe fare, per proteggere le donne. Grazie a Forza Italia c’è una dura legge contro lo stalking, voluta con la stessa determinazione con la quale nei giorni scorsi ha ottenuto di eliminare la possibilità di ridurre la pena a chi commette questi reati pagando quattro spiccioli, anche senza il consenso della vittima. Però, in questa nostra Italia c’è, ancor di più, il vuoto per tutto quello che non si fa per le donne, in termini di servizi e welfare, e che le rende ancor meno libere ed indipendenti, come dovrebbe invece essere normale, almeno in un Paese europeo. E sì perché, anche quando si parla di diritti, non si può non parlare di risorse: di quello che non si spende, o di quanto poco si investe, sul tema della violenza di genere. Bene ha fatto l’Ugl in questi giorni a fotografare lo stato delle cose in Italia nel suo rapporto “Senza Parole” che ho avuto modo di leggere attentamente. Basta sfogliare quelle pagine per comprendere come il riparto dei (pochi) fondi disponibili sia ancora assai lontano da quanto si dovrebbe per garantire effettività ai concetti di prevenzione e di contrasto del fenomeno. E sopratutto, non si può non restare sconcertati di fronte al fatto che, ancora una volta, è proprio nel nostro Sud – dove cioè c’è più bisogno di sostegno per le donne, a partire da strutture di accoglienza e di ascolto – che lo Stato investe assai di meno. Ma la mediocrità di questi governi strabici non può essere un alibi per nessuno. Abbiamo bisogno di competenza, coraggio e consapevolezza. La politica, se vuole tornare ad essere credibile, compia le proprie scelte con saggezza. Il sistema dell’informazione accenda i propri riflettori nel modo giusto. L’opinione pubblica impari a chiamare le cose col proprio nome e non aspetti di scoprire da uno schermo quello che non funziona nella nostra società.

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