Fatima vestiva sempre con un maglione di lana che le arrivava alle ginocchia. Lo vedevi subito che non era della tua taglia. Lo capivi dalle maniche arrotolate ai polsi. Non parlava mai, era seduta all’ultimo posto e non faceva mai i compiti. «Hai studiato i verbi?», le chiedevo e lei girava la testa per farmi capire che non li aveva fatti. Poi un bel giorno andai dalla sua maestra – all’epoca facevo un laboratorio in una scuola elementare, di quelle difficili, e il nostro percorso era funzionale alla promozione per le medie – ed espressi le mie perplessità: «Ma se questa bambina non fa nulla, come posso darle l’ideoneità?», chiesi. «Ma chi, Fatima? Ma quella non capisce nulla di italiano, è arrivata qui un mese fa!», rispose impotente. «E quando avevi intenzione di dirmelo?» le domandai, a mia volta.
Da quel giorno presi con me Fatima e ci mettemmo, di volta in volta, a costruire frasi con parole quotidiane. Gli oggetti che trovi a scuola, quelli che trovi in cucina, i nomi dei vestiti e dei cibi. E altro ancora. Il corso andò avanti per tutto il resto dell’anno e alla fine feci vedere in classe Alla ricerca di Nemo. Dovevano fare due esercizi: il riassunto del film (per il testo narrativo) e la descrizione dell’acquario. A lei dissi di scegliere uno dei due, perché era svantaggiata rispetto agli allievi madrelingua, ma lei li fece entrambi. E li fece bene, anche se con il suo italiano stentato. C’era tutto: la scansione delle sequente narrative, la corretta connessione testuale, la coerenza argomentativa. Quando lesse il suo riassunto in classe, era talmente bello che i suoi compagni e le sue compagne si sciolsero in un applauso.
Rimase sempre in fondo all’aula, ma cominciò a parlare con qualche ragazza della sua classe. Il “corso del pomeriggio”, come lo chiamavano a scuola. Era stato pensato per i bambini dialettofoni, che dovevano imparare a dominare meglio la lingua italiana. Gente di paese, molto pratica in certe questioni. Ricca di umanità, volenterosa e animata dal desiderio non solo di sapere, ma anche di essere vista. Dagli insegnanti, da quelli che venivano dalla città e che, forse, mai li avevano ascoltati per le loro storie. Alla fine del corso, i bambini mi saltarono addosso, per l’ultimo abbraccio collettivo. Lei rimase in disparte, poi si avvicinò e mi sussurrò, con la sua lingua ritrovata: «Mai mi dimenticherò di te, professore». A stento riuscii a trattenere le lacrime. Ma non dimenticherò mai, nemmeno io, l’abbraccio che decisi di regalarle.
Sono passati dieci anni da allora. Non so più nulla di Fatima – il nome è inventato, sia chiaro, perché voglio tutelare la privacy di quella che oggi sarà una donna – e non so se è rimasta in Italia o se è tornata nel suo paese. So che mi ha insegnato molto, in termini di umanità e di differenze che si osservano, si toccano e, infine, si riconoscono. So che dopo di lei ho conosciuto altri ragazzi e altre ragazze di altri posti venuti in Italia o nati qui. Ragazzi e ragazze che imparano la lingua e il dialetto. Che stanno con i loro coetanei e vanno il sabato pomeriggio al centro commerciale o che magari fumano di nascosto la loro prima sigaretta. In una scuola della periferia di Roma, sempre di quelle difficili, avevo due studentesse: una nigeriana, Lidia, e una egiziana, Miriam (altri due nomi di fantasia). Quando si scoprì che ero gay, a scuola, fu un piccolo terremoto.
I ragazzi – maschi per lo più – non accettavano la mia diversità. Loro due mi furono vicine per tutto il tempo che insegnai in quell’angolo al di fuori del grande raccordo anulare. Una volta un energumeno di un metro e novanta mi puntò, per “menarme” perché “er professore è frocio”. Lidia si mise tra di noi. «Embè?» gli disse, minacciosa. Lui sparì per sempre. E un altro giorno mi chiese: «Professò, ma lei com’è che ha capito di essere gay?» Le risposi con un’altra domanda: «E tu come hai capito di essere innamorata di Simone?» e a quel punto, tutt’e due, cominciarono a picchiettarsi la fronte col palmo della mano e insieme a Miriam dicevano: «Come ho fatto a non pensarci?»
Ricorderò per sempre, ancora, con infinito affetto che ancora mi commuove, quando i genitori di Abraham vennero da me per sapere come andava il figlio a scuola. «Tutto bene, è un ragazzo molto in gamba. Spero che voglia continuare con l’università». Lui, il padre, traduceva in arabo le mie parole alla moglie, perché lei non capiva perfettamente tutto quello che gli avevo detto. «Sa, ci teniamo molto alla sua istruzione. Al nostro paese noi studiavamo…» e poi la guerra, lo stato di rifugiati in Italia e infine un lavoro, per tirare a campare, in una pizzeria a Trastevere. Si erano vestiti come per andare ad un evento importante e la signora, la mamma di Abraham, aveva gli occhi lucidi per l’emozione.
Ho imparato tanto dai miei allievi e dalle mie allieve proveniente da altri paesi. Ho imparato l’arte di accorciare le distanze con i tempi necessari. Ho imparato un diverso significato dato alla parola “dignità”. Ho imparato cos’è la rabbia per quelle ingiustizie che nel futuro saranno studiate sui libri di storia ma che nulla ci diranno sugli occhi arrabbiati, ma non del tutto sconfitti, di chi le ha vissute sulla propria pelle. A tutte queste persone abbiamo negato il diritto di essere cittadini e cittadine quando ogni loro sforzo va nella direzione di abbattere steccati e diffidenze. E in nome di una certa ipocrisia, che ci è cara, abbiamo festeggiato le consuete ritualità di fine dicembre.
Vorrei chiedere scusa, a tutte le persone a cui ho avuto l’onore di insegnare. Il mio Paese non è stato capace della vostra bellezza. Verranno tempi migliori e voi ne sarete parte. Pienamente. Verrà un momento, nella nostra storia, in cui a non avere cittadinanza sarà l’essere persone povere di empatia, di rispetto e di comprensione. Fino a quel momento, scusateci per non essere capaci di essere migliori. Scusateci davvero.