Ha ragione Giavazzi: sulle liberalizzazioni, ritorno al passato. Tuttavia, se in linea generale si sta diffondendo un virus anti-mercato, nel particolare del trasporto pubblico, i meccanismi di ritorno allo statalismo sono più insidiosi. Dei conflitti di interesse, delle regole poco chiare, delle gare prive delle clausole previste dalla norma se ne è parlato a iosa. Tutti questi sono strumenti, assolutamente legali e legittimi, con cui il pesce grande cerca di neutralizzare i pesci piccoli. Non li mangia. Come invece prevede l’arte della guerra applicata al mercato. Bensì fa in modo che non possano essere più pericolosi.
Prendiamo il caso di Padova. È fresco di questi giorni il bando per la gestione del Tpl, sia bus che tram, nella provincia veneta. La gara è europea, quindi potenzialmente aperta a tutte le aziende del mercato comune. Peccato che i requisiti richiesti siano per lo meno anomali. Soprattutto quelli di capacità economico-finanziaria. L’aggiudicatario, si legge nel bando, per poter stipulare il contratto dovrà dimostrare di disporre di un patrimonio netto disponibile non inferiore a 20 milioni di euro. Ma soprattutto dovrà avere realizzato negli ultimi tre esercizi contabili un valore complessivo di produzione per servizi di Tpl non minore di 157 milioni di euro. Sono numeri importanti, che guarda caso non hanno in Italia il 99% delle aziende private. E quindi non possono neanche provare a partecipare. I numeri li hanno i pesci grossi, quasi tutti pubblici e comunque pochissimi. A Padova l’incumbent è Busitalia. Lo ribadiamo: società controllata da Ferrovie dello Stato, che sta cercando di espandere celermente la sua presenza nel Tpl su strada in tutta Italia. Nel padovano pretende di confrontarsi solo con suoi parigrado. Ma questo significa voler mantenere lo status quo e non mettersi in discussione sul mercato, confrontandosi, in maniera inclusiva, con dei competitor, oppure facendo innovazione. Il vincolo degli autobus a metano è esemplare. A Padova, dove Busitalia è incumbent viene mantenuto. Altrove, per esempio a Pavia (a proposito, a chi interessava a Pavia?), la sostenibilità ambientale – asset strategico dell’innovazione del settore – non rientrava tra i requisiti di gara in quanto l’aggiudicataria vi si sarebbe dovuta adeguare, quindi spendendo risorse di tasca propria acquistanto mezzi ecofriendly.
La tattica di precludere le gare alle imprese di media o piccola dimensione va a discapito sia di queste ultime, sia delle grandi aziende che in questo modo non rischiano nulla. La gara infatti è un’occasione di crescita per tutti. Se non posso parteciparvi, io che sono una piccola non posso nemmeno svilupparmi. E così non ho le possibilità di innovare, introdurmi in nuovi territori, investire in risorse umane. Ma soprattutto non potrò mai raggiungere quei 157 milioni di produzione annua che, per esempio, mi chiedono di dimostrare a Padova. Ci si obietterà che si può partecipare in aggregazione. Vero. Peccato che a Padova si chieda al mandatario l’80% dei requisiti. Quindi ancora una volta i privati sono ridotti al lumicino. Al contrario, io – incumbent muscolosa e piazzata da tempo a Padova o altrove – se non voglio che gli altri partecipino alle gare, non potrò mai ricevere dal mercato quelle dritte che mi servono per migliorare.
Un altro punto critico del bando di Padova sta nei 20 milioni di chilometri del bacino di utenza. Un perimetro troppo esteso e costoso per chi è piccolo. Tempo fa, Andrea Boitani della Cattolica di Milano aveva indentificato nei 4 milioni di chilometri il tetto massimo del bacino di utenza perché un’azienda potesse rispondere agli standard di efficienza e qualità. A Padova il bacino è maggiore cinque volte questo limite! Le aziende piccole, per loro natura più efficienti e dai costi ridotti, potrebbero coprire con destrezza un perimetro ridotto, garantendo poi quello che dovrebbe essere l’obiettivo delle gare: offrire il servizio migliore al costo più basso. Ma anche questa logica è stata accantonata. Sempre per soddisfare una grande azienda pubblica. O meglio, sempre nell’ottica di creare un monopolio. È vero, questo l’Europa ce lo vieta. A livello legale. Ma, come insegna la dottrina, le cose che non si possono fare di legge (monopolio legale), sono possibili de facto (monopolio di fatto). E un monopolio è sempre negativo per l’utente.
Ora, c’è chi potrebbe dire che, in realtà, con Ferrovie dello Stato si sta procedendo alla creazione di un campione nazionale del trasporto su ferro e su gomma. Un soggetto unico e strategico per la crescita della nostra economia. Se fosse così, non avremmo da obiettare. Per la ragion di Stato, saremmo anche disposti ad ammainare il nostro vessillo del libero mercato. Ma un’azienda, per essere strategica, dev’essere anche efficiente. E qui Ferrovie dello Stato ha pochi spazi di argomentazione. L’obiettivo del risiko allora non è economico, bensì politico. Anzi squisitamente elettorale. Ingozzarsi di municipalizzate vuol dire piazzare uomini e risorse in specifiche realtà territoriali. Vuol dire creare consenso. Azzardando, si potrebbe addirittura parlare di una maxi operazione di voto di scambio. Ma è pour parler!