ApotropaicoCiò che la clonazione non dice

Proprio oggi, in un laboratorio cinese, una scimmia è stata clonata dando vita ad una gemella, tendenzialmente uguale e compare. Subito la scienza mera ha esultato sorridendo a grandi, grandissimi...


Proprio oggi, in un laboratorio cinese, una scimmia è stata clonata dando vita ad una gemella, tendenzialmente uguale e compare. Subito la scienza mera ha esultato sorridendo a grandi, grandissimi, passi avanti praticamente per tutto: malattie, problematiche di vario tipo, mutilazioni di sorta. Insomma, è la vittoria della scienza sul segreto della creazione.


Alcuni punti caldi, diciamo bollenti, che chiunque, aldilà del credo politico o religioso, ha il dovere di porsi nel leggere queste righe. Ah, per inciso, è indispensabile l’onestà intellettuale cioè quella virtù morale che mira alla Verità. (Notare V maiuscola)

Casi studio. I cloni vengono trattati come cavie visto che servono, a noi che non lo siamo, a far scoprire metodi e modi per sconfiggere determinate malattie. Siccome la medicina va per tentativi logici ci sarà una lunga trafila, ben meccanicizzata, sul come, sul quanto e sul quando presentare i cloni agli esperimenti. Ammesso e non concesso che i cloni non siano da considerare come le copie vere, di animali o uomini, che cosa succederà quando la clonazione sarà un processo equivalente a un click? Risposta: sperimentazione selvaggia. Ma gli animalisti tanto amati che negli slogan raccolta fondi salvano le balene dall’estinzione e i cuccioli di panda, qui, ad esempio per i topi da laboratorio e per le scimmie clonate, dove sono? Silenzio assenso.

Modello Frankenstein. Siccome il processo della clonazione è molto complesso, e dubbioso, altrettanto difficile e arzigogolata è la procedura sul come essa possa guarire qualcosa al di fuori di essa stessa. Non stiamo parlando del principio dell’antibiotico, di conseguenza nessuno inietta qualcosa in qualcun altro dopo robusti test o dopo vagli di un, seppur poco stimato, ministero della sanità; al contrario mi sembra che sia molto più papabile l’opzione taglia-cuci cioè prendi da un pezzo qui per poterlo attaccare là. Di qui tutta una serie di piccoli quesiti che i grandi media, furbescamente, non si permettono di mettere in evidenza. I chirurghi estetici già hanno la bava alla bocca.

Diritto all’acquisto. Ammettendo che la clonazione sia, in parte, un atto ad uso e consumo di noi, non clonati chi, anche nel caso in cui fosse veramente malato, mutilato, storpio o comunque bisognoso di “un pezzo nuovo” ha il diritto di curarsi prendendo parte di un altro? Tecnicamente, con medici di mezzo, è cannibalismo: chiamiamolo un cannibalismo tecnico. E se non fosse un taglia-e-cuci ma una semplice cura per il tumore quanto costerà? E in base a cosa? Mi sento già povero.

Diritto alla vendita. Ammettendo che la clonazione sia, in parte, un atto ad uso e consumo di noi, non clonati chi, anche nel caso in cui avesse possibilità legale, non morale, di vendere questo tipo di cure potrebbe arrogarsi il derivato economico derivante dallo scambio? E poi, ohibò, sarebbe tassato? Sicuramente sì: appena c’è un guadagno lo Stato si muove. Occhi strabuzzati: mi sembra di leggere Asimov. Poi scopri che farmaceutiche come Pfizer tolgono soldi per la cura dell’Alzheimer per destinarlo in progettini come questo. Vien da chiedersi se qualche interesse, un filo vicino ai bilanci, ci sia.

Diritto all’oblio. Nulla si crea, nulla si distrugge: da oggi balle. Possiamo clonare! Ciao Lavoisier, ciao fisica teorica, benvenuta macelleria! Brevi aspetti tecnici giusto per mettere un po’ di benzina sul ragionamento poco infiammato: una volta clonata, che diritto ha la scimmia? Come deve essere considerata? Se siamo arrivati al delirio di onnipotenza del non considerare vita ciò che è sotto i tre mesi di gravidanza, esclusi i cuccioli di panda #percarità un clone che fine farà? E soprattutto: una volta che avremo messo, fuori dal nostro ufficio, la targhetta “Creatore” cosa rimarrà di noi? Chi deciderà chi è e chi non è? Vien da perdersi. Epistemologia da tribunale e ontologia à la carte per i più. Il resto si può buttare, tanto è clonabile.

Ombre che ritornano. Spulciando nei vari manuali di psicologia non ho trovato, ma forse mi sbaglio, non sono mica un magistrato, una fobia che descrivesse esattamente la paura verso se stessi, di noi stessi, in sintesi del proprio io. In effetti, se il processo di clonazione è in fase di successo a breve saremo capaci di duplicare ad uso e consumo. Se la Sacra Crusca ha permesso un abominio come “petaloso” pretendo, da italiano che coniuga il gerundio in modo corretto, un unicum grammaticale che descriva quello che tra poco avrà realtà tangibile. Lasciando in disparte momentaneamente i deliri di rinnovamento linguistico l’unico lemma che tendenzialmente si avvicina alla paura di noi stessi è l’agorafobia che, erroneamente, si riconduce alla paura degli spazi aperti. Paura morbosa di trovarsi in posti, dicono gli esperti, in situazioni dalle quali sarebbe difficile allontanarsi. Si erge Cesare Musatti: “l’agorafobia è la paura della libertà, quindi del libero arbitrio cioè di noi medesimi per ciò che veramente siamo”. Sorge spontaneo un quesito: ma se, già da tempo e senza clonazione, c’è una larga fetta di popolazione, per non parlare degli altri, che ha paura – in senso manifesto – di se stessa cosa succederà quando quella paura, o quella proiezione, prenderà forma fisica? Sempre usando la logica il risultato sarebbe un incubo a occhi aperti. King, povero, anche tu sei da riciclare: la realtà fa molto più spavento della tua vena horror.

Non uno che alzi la mano e dica: “Piano ragazzi, andiamoci piano. Prima di far finire tutto in disastro, ragioniamo beneAspettate, forse qualcuno c’è: Gaudio!

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