Con il famigerato tweet rivolto nei giorni scorsi ad Alberto Bagnai della Lega, Stefano Fassina ha rivelato ancora una volta – se mai ce ne fosse ancora bisogno – che alla tradizionale distinzione tra destra e sinistra si sovrappone oggi – o, per alcuni, si sostituisce – quella tra europeisti e sovranisti, amici della globalizzazione i primi, nazionalisti i secondi.
Fassina-Bagnai: le relazioni pericolose
Con il tweet di qualche giorno fa, Fassina invita Bagnai a dialogare al fine di riaffermare la supremazia della Costituzione Repubblicana sui Trattati europei. Una linea esplicitamente sovranista, appunto, che oggi accomuna molti politici dei più disparati schieramenti, ma soprattutto quelli della sinistra postcomunista, della destra leghista e postfascista e della galassia pentastellata. In questa logica, i Trattati europei sono espressione della globalizzazione finanziaria che ha affamato i popoli e la Costituzione diventa l’ultimo presidio dello stato nazionale capace di garantire prosperità e lavoro.
Più estesamente, in questa contrapposizione resiste l’eco delle politiche assistenziali e lavoriste che nel Novecento hanno fatto la fortuna delle socialdemocrazie e dello stato sociale. Una storia certamente importante che ha prodotto risultati straordinari, ma che alla lunga ci ha portato ad un mondo fatto di retribuzioni minime imposte per legge, di lavoro seriale svolto nelle fabbriche di modello fordista, di tassazione progressiva e redistributiva, di spesa pubblica incontrollata e inefficiente, di assegni pensionistici insostenibili erogati con criterio retributivo, di aziende pubbliche che erogano servizi inadeguati dilapidando ingenti risorse pubbliche, di politiche inflazionistiche e protezionistiche. Questo mondo, che in parte ha garantito un certo tipo di benessere, ha però vissuto al di sopra delle proprie possibilità, creando le condizioni per una profonda diseguaglianza, specialmente intergenerazionale, e oggi non regge più, non avendo più le dimensioni sufficienti per affrontare i problemi sempre più globali.
Il ritorno allo stato nazionale assistenziale
Ciononostante, i populisti ritengono che il ritorno a questo passato – una nuova centralità dello stato nazionale, aiuti alle imprese che non tengono il passo del mercato internazionale, accrescimento della spesa pubblica e del relativo debito, l’innalzamento della tassazione – possa davvero risolvere i problemi attuali. Una roba del genere, però, si può riproporre solo a determinate condizioni: l’abolizione del pareggio di bilancio, l’abbandono dei parametri europei e della moneta unica europea, la riaffermazione della sovranità del Parlamento nazionale e della primazia della volontà popolare contro la prospettiva federalista europea. La Costituzione repubblicana, in questo quadro, diventa lo strumento per ritornare a un’economia sostanzialmente nazionalizzata poiché diretta, indirizzata e controllata dallo Stato.
“Prima gli Italiani”: il ritorno della ‘razza bianca’
Fassina vorrebbe discutere di tutto questo con Bagnai. Ma Bagnai è anche rappresentante di quella Lega che cavalca il motto “Italians First” – “Prima gli Italiani” – per la campagna elettorale, e che, con il candidato alla guida della Regione Lombardia Attilio Fontana afferma che “dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società deve continuare a esistere o la nostra società deve essere cancellata”. Insomma, siamo di fronte in questo caso ad un populismo etnoculturale, quello che riconosce il senso del popolo nell’appartenenza ad una etnia e che, per questo, considera una minaccia tutto ciò che proviene dalle nostre frontiere. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una voce dal sen fuggita, ma sappiamo che non è così. Fontana, addirittura, ha insistito affermando che la Costituzione – toh, la Costituzione, di nuovo! – andrebbe modificata proprio per meglio proteggere i diritti della razza bianca e ha dichiarato soddisfazione per aver catalizzato una grande fetta di consenso che non aveva ancora avuto finora il coraggio di esprimersi. Le tragiche esplosioni di odio etnico e razziale che hanno incendiato l’Europa nel secolo scorso sono partite da simili banali scintille.
Le due anime del populismo
Questa singolare ‘partnership’ tra la sinistra statalista e il leghismo etnico non deve stupire. Si tratta di una versione italiota di fenomeni emergenti in tutto il mondo e, in particolare, nelle stesse democrazie europee e occidentali che, inegenuamente, pensavamo immuni ormai da questi rischi. Talvolta, poi, il mix delle due ‘anime’ del populismo è più confuso. E’ quanto succede al M5S di Luigi di Maio. Il movimento grillino propone infatti, nel suo programma elettorale, un piano di iniziative di sostegno economico e sociale alla popolazione a dir poco improbabile, privo com’è delle minime coperture finanziarie, se non quelle derivanti dalla retorica contro la casta; nel frattempo, non soltanto sparisce dalla piattaforma programmatica ogni riferimento all’Unione Europea, ma, nel discorso pubblico, il leader Di Maio ‘cavalca la tigre’ del “Prima gli Italiani”, a braccetto con Salvini.
La partita delle elezioni italiane del 2018 si gioca in questa sfida contro le pulsioni populiste. Ma – dicevamo – la sfida non è solo domestica, ma si gioca a più livelli sul piano europeo e internazionale.
Il populismo: un fenomeno globale e complesso
Il populismo è diventato un fenomeno politico sempre più rilevante in questi ultimi anni. Negli Usa con l’elezione sconvolgente di Donald Trump. Nel Regno Unito con l’imprevedibile fuga dall’Europa. In Francia, con il Front national di Marine Le Pen arrivato a pochi passi dalla vittoria finale. In Italia, con il Movimento Cinque Stelle al governo della capitale del paese e candidato ad essere il primo partito nelle prossime elezioni. In tutto il mondo ritenuto ‘sviluppato’ le forze d’ispirazione populista hanno guadagnato terreno.
Ma il populismo non si limita a Europa e Nord America: anche il Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte e il Primo Ministro indiano Narendra Modi hanno utilizzato la retorica nazionalista e populista per inseguire il successo elettorale.
Certamente, la crescita del populismo non è necessariamente un processo inesorabile. Ha conosciuto delle battute d’arresto, anche in Europa (per esempio, in Olanda e in Francia). Ma la partita è apertissima. Basti pensare al caso dell’Austria dove Alexander Van der Bellen, il candidato del partito dei Verdi, aveva sconfitto l’ultra nazionalista Norbert Hofer del Partito della Libertà nelle elezioni presidenziali austriache del 2016, ma, alla fine del 2017, Sebastian Kurz, leader del Partito popolare austriaco, è diventato Cancelliere federale di un governo ultraconservatore che schiera proprio Hofer come Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Anche il recente successo elettorale di Alternative für Deutschland in Germania – il paese con uno dei sistemi politici più stabili in Europa – dimostra che il richiamo populista continua ad attirare una bella fetta di elettorato europeo.
Tutto ciò non promette nulla di buono per il futuro della comunità internazionale. C’è il rischio imminente che l’assenza di condivisione dei valori liberali, la mancanza di rispetto verso le istituzioni multilaterali, la noia per il pluralismo delle società democratiche, l’insofferenza nei confronti del libero mercato possa sciogliere quel collante che ha finora legato in un destino comune i protagonisti dell’ordine scaturito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Populismo: un concetto vago e polivalente
In realtà, come qualcuno ha giustamente osservato, il concetto di populismo è assai discutibile e difficile da definire. Qualche giorno fa, commentando un altro mio contributo sul tema, il professor Mario Rodriguez ha giustamente osservato: “Per essere risolto un problema va definito. Fu così col fascismo. Col populismo non ci siamo ancora. Definizione troppo vaga e polivalente”. Come dargli torto? L’osservazione è puntuale e quelli che si sforzano di capire – a volte perfino con qualche dato – navigano nell’incertezza. Anche le ragioni del successo planetario sono difficili da isolare.
Ciononostante, è possibile individuare alcune caratteristiche ricorrenti nella proposta dei partiti e dei movimenti populisti nel mondo.
La prima chiara caratteristica è il fatto di credere nell’esistenza di una dicotomia tra un gruppo dirigente selezionatissimo di ispirazione popolare che si oppone a delle elites percepite come ‘forze del male’ che controllano le istituzioni. A partire da questo aspetto, poi, le manifestazioni del populismo cambiano da paese a paese.
Come ha argomentato Cas Mudde, un famoso studioso del fenomeno, nazionalismo e populismo sono ideologie che oggi risorgono miscelate di solito con tradizioni culturali differenti: queste diverse miscele sono determinanti per la loro capacità di costruire senso in una sempre più larga fetta di elettorato. Nonostante importanti variazioni tra i movimenti populisti, la loro esclusiva e specifica forma nazionale di ‘rappresentazione’ politica è una costante.
La natura ‘unica’ di ciascuna narrativa populista nazionale complica il lavoro di analisi e depotenzia le nostre capacità di comprensione. La conseguenza è che – come appunto osserva Rodriguez – fronteggiare i movimenti populisti diventa così molto più complicato.
Rabbia sociale e odio etnico: un mix esplosivo
Alcuni partiti populisti si focalizzano sulle tensioni etnoculturali, mentre altri denunciano le diseguaglianze economiche e sociali. In molti casi, comunque, questi temi sono fusi in narrative che scatenano paure di tipo culturale e di tipo economico.
Basti pensare ad alcune posizioni assunte da Marine Le Pen alle presidenziali francesi. Uno dei suoi principali impegni – che rivela un populismo più orientato sul piano economico – fu la promessa di ritirare la Francia dall’Unione Europea a meno che la UE non si fosse trasformata in una blanda federazione senza moneta comune. Questo specifico economico era ulteriormente evidenziato nella sua promessa di abbassare l’età pensionabile, aumentare i dazi doganali ed espandere i benefici del welfare. Le Pen, allo stesso tempo, ha utilizzato fobie di tipo etnico per mobilitare i propri sostenitori, impegnandosi a limitare l’immigrazione, erogare formazione soltanto ai cittadini di nazionalità francese e dare priorità ai cittadini francesi nella offerta di casa e di lavoro. Queste policies del populismo culturale ed etnico presumono anche uno stigma religioso – consistente nel collegamento tra immigrati e rifugiati con il terrorismo – che conduce alla minaccia di spogliare tutti i musulmani della cittadinanza francese se una minoranza di essi dovessero mantenere posizioni estreme. In breve, le politiche promosse dalla Le Pen sembrano scatenare paure insieme economiche ed etnoculturali. Difficile non riconoscere in queste posizioni l’eco dei programmi e delle dichiarazioni di formazioni politiche nostrane come la Lega Nord e il M5S.
Una minaccia per l’Europa e la comunità internazionale
Forse è impossibile separare completamente le ragioni etnoculturali del sostegno ai partiti populisti da quelle economiche. Ma indipendentemente dalle particolari motivazioni per le quali le persone appoggiano i movimenti populisti, il successo dei populismi – di qualsiasi ‘tipo’ siano – rappresentano una minaccia reale per la cooperazione internazionale e la stabilità. Basti pensare alle minacce protezionistiche di leader populisti come Trump e Le Pen. E, in Italia, di Salvini e Di Maio. Come abbiamo già visto, anche Stefano Fassina, già bersaniano viceministro dell’Economia, ha di recente ‘cinguettato’ con il candidato della Lega Alberto Bagnai per riaffermare la supremazia della Costituzione sui Trattati europei. Supremazia che, nella lingua di questo neonazionalismo confusionario, si traduce nel ritorno di una arcadia statalista nella quale, superando i vincoli di bilancio, aumentando le tasse e la spesa pubblica, d’incanto sarebbero garantite condizioni di uguaglianza e prosperità per tutti.
La cifra comune di queste proposte – in Italia, in Europa e in America – è la riproposizione di misure protezionistiche e la mortificazione degli accordi multilaterali (come il Nafta e l’Eurozona). Trump può anche dichiarare al World Economic Forum di Davos che “America First” non vuol dire “America Alone”. Allo stesso modo, Di Maio può anche rinunciare all’intimidazione di un referendum contro la moneta unica. Fassina, infine, può riproporre una prospettiva di uscita dai Trattati europei apparentemente innocua perché fondata sui valori della Costituzione più bella del mondo.
Resta il fatto che le politiche populiste – quelle già promosse e quelle soltanto promesse – rimettono indietro le lancette dell’orologio della globalizzazione economica e della libertà di mercato che hanno garantito livelli di crescita importanti in molti paesi del mondo, nonostante le contraddizioni.
Crisi economiche e resilienza dell’ordine internazionale
Per capire quanto queste politiche possano rappresentare un pericolo per il mondo basterebbe comparare il crollo finanziario del 2008 alla Grande Depressione del ’29. Nel 2008, la cooperazione multilaterale e l’intervento delle istituzioni internazionali hanno assicurato che le crisi economiche non portassero mai alle croniche e disperate condizioni degli anni ’30. Invece di essere travolti da una Guerra mondiale, abbiamo assistito alla continuazione – seppure imperfetta – della collaborazione tra le nazioni del mondo. Pertanto, non soltanto il successo dei partiti populisti su scala mondiale rischierebbe di esporre maggiormente le nostre società ai traumi dell’economia, ma potrebbe inoltre provocare esso stesso quella crisi economica capace di ostacolare in modo sistematico il commercio internazionale e gli scambi finanziari.
Per fortuna, l’ordine economico internazionale è caratterizzato da una eccezionale resilienza ed è stato capace di assorbire i venti della Brexit e di Trump. Tuttavia, tutto ciò potrebbe rappresentare solo un caso fortunato grazie al fatto che i soggetti interessati hanno finora scelto di fronteggiare la sfida populista. Pensiamo al caso in cui un numero sempre maggiore delle più forti economie mondiali abbracciasse le idee dei neonazionalisti. Nulla potrebbe più con certezza garantirci dal rischio di precipitare in un’altra crisi economica e politica. Un’Italia pentastellata e leghista, per esempio, ci consegnerebbe a pericolose affinità elettiva con i paesi nazionalisti dell’Europa orientale.
I rischi del conflitto etnico
E cosa dire del populismo etnoculturale? Da una parte, assistiamo al fuoco dei conflitti domestici e della polarizzazione etnica – sviluppo testimoniato nei mesi scorsi da vari eventi come la Marcia dei suprematisti bianchi in America e il raduno nazionalista a Varsavia durante il giorno dell’indipendenza della Polonia – dall’altro, c’è l’impatto negativo sulle relazioni internazionali.
Per esempio, si può immaginare una inimicizia duratura che si sviluppa tra Usa e Messico provocata dai commenti incendiari di Trump sui “paesi-cesso” e sugli immigrati chicani e dalla sua insistenza sulla costruzione del muro di confine. Naturalmente, l’integrazione di gruppi provenienti da retroterra regionali e culturali molto diversi è difficile e certe preoccupazioni sono fondate. Ma quando i decisori politici, invece di cercare e offrire soluzioni anche severe ma ragionevoli, alimentano le paure razziali e religiose per mobilitare la loro base il rischio è soltanto quello di creare conflitti permanenti sia a livello domestico che internazionale.
Infine, definendo i valori lungo linee religiose e culturali, i populisti xenofobi rischiano di erodere le basi della democrazia liberale. Come hanno dimostrato diversi paesi – Iraq, Myanmar, Turchia, Thailandia – i governi fondati sulla prevalenza di gruppi dirigenti che marginalizzano le minoranze etniche, politiche e religiose creano sistemi instabili e illiberali. Questi regimi sono antitetici ai valori liberali e moltiplicano i conflitti civili generando instabilità nelle loro regioni.
Fronteggiare il populismo. Ma come?
Dati i rischi del populismo, tutti i soggetti minacciati dovrebbero ricercare responsabilmente di bloccare la sua avanzata e limitarli. Sfortunatamente, l’ampia diversità delle ragioni e dei diversi orientamenti politici degli elettori populisti complicano il raggiungimento di questo obiettivo. Come abbiamo visto, alcuni elettori sono motivati dalle rivendicazioni economiche, altri dal disagio sociale, altri dall’ira razziale. Alcuni mischiano tutte queste ragioni in un mix esplosivo.
Respingere l’avanzata dei populismi significherà, pertanto, inventare e coltivare una strategia complessa per fronteggiare le critiche anti-establishment e risolvere i problemi che stanno alla base della rabbia populista.
Non si tratta di una sfida facile. Per i partiti politici tradizionali la via più efficace per combattere la crescita dei movimenti populisti potrebbe essere quella di promuovere un’agenda di riforme particolarmente audace in grado di manifestare un serio impegno per il cambiamento e il superamento dello status quo.
Il caso di Macron sembra andare in questa direzione, ma, per intraprendere la sua strada, il presidente francese ha dovuto inventarsi anche un partito nuovo, lasciando sul campo le macerie del partito socialista francese. Caso paradossale, l’esperienza di governo Renzi ha impattato – proprio a causa di questa audacia – contro il muro della conservazione innalzato, da un lato, dalle classi dirigenti del paese e, dall’altro, dalla stessa popolazione che ha votato no al referendum.
E purtuttavia, sarebbe privo di senso e di prospettiva, oggi, un richiamo allo status quo come mancanza di alternative credibili. Per fare un esempio, insomma, dire che i Cinque stelle sono incompetenti ed è meglio affidarsi alla scienza o che i loro sistemi di selezione della classe dirigente sono ridicoli potrebbe non bastare.
Non esiste alternativa all’Europa
Non c’è spazio per una difesa passiva dell’esistente. Il centrodestra e il centrosinistra – intendendosi con queste espressioni le parti democratiche e liberali dei due schieramenti tradizionali – hanno il compito difficile di offrire proposte di riforma capaci di intercettare la rabbia degli elettori.
Allo stesso tempo, questi partiti dovrebbero offrire una chiara e convincente difesa dell’attuale ordine liberale internazionale, a partire dalla costruzione dell’Unione Europea (come ha fatto di recente Matteo Renzi), ricordando agli elettori i molteplici (anche se spesso nascosti) vantaggi dell’unità europea e della globalizzazione economica e svelando le spericolate politiche dei demagoghi populisti.
Checché se ne pensi, viceversa, l’idea di intercettare la retorica populista con una retorica altrettanto drogata fatta di promesse economiche impossibili non farà fare passi avanti, né in termini di consenso, né in termini di clima complessivo. Non ci sono strade alternative alla promozione di valori e politiche liberali e alla conferma degli impegni europei e internazionali.
Non c’è alternativa nell’affrontare il populismo: occorre scegliere la prospettiva europea e della collaborazione internazionale, investire sulla società aperta capace di garantire sviluppo, libertà di mercato e accoglienza regolata dei cittadini migranti.