Come ho già scritto sul mio profilo Facebook, io e Sergio Lo Giudice siamo sempre stati su posizioni opposte. Anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, lui era il presidente di Arcigay, mentre io facevo i miei primi passi in una piccola associazione antagonista che si poneva in posizione conflittuale con le politiche dei circuiti più grandi. Con il passare del tempo, ci siamo scontrati su visioni diverse della politica, a cominciare dalla credibilità del Partito democratico sulla questione Lgbt: per lui era un soggetto che meritava una chance, io sono sempre stasto diffidente. Ad uno sguardo fugace, tutto ci allontanerebbe. Ma, a questo proposito, vi racconto una storia.
Era il dibattito sulle unioni civili: i soliti omofobi al Senato lo attaccarono. Gli chiesero quanto avesse pagato suo figlio. La solita eleganza di Gasparri… Lui, Sergio, si alzò dal suo scranno ed andò via. Un contesto in cui sarebbe stato comprensibile un tono di voce concitato, una parola di troppo. C’era una legge da approvare, non era il tempo di cadere sul personale. Questo è senso delle istituzioni, pensai. Ne apprezzai la signorilità e la civiltà, in un contesto in cui veniva descritto come un criminale e che riduceva il piccolo Luca a merce. Sempre in relazione a quel dibattito, fu proprio lui a scendere in strada, in un freddo giorno di gennaio, quando di fronte all’eventualità dell’eliminazione delle stepchild adoption, il movimento arcobaleno si radunò in prossimità del Senato. Fu lui a metterci la faccia, a rischiare fischi e insulti di una piazza molto arrabbiata.
La direzione nazionale del Pd, ieri notte, non ha tenuto conto di tutto questo. Matteo Renzi, nel laborioso e devastante (ipse dixit) processo di selezione delle candidature, ha deciso di far fuori un personaggio simbolo della lotta per le unioni civili e, soprattuto, della questione della genitorialità delle persone omosessuali. Un gesto qualificante del futuro del Pd sui diritti delle persone Lgbt: una scelta che potremmo definire di omofobia politica. Soprattutto se la confrontiamo con la candidatura a Bologna di Pierferdinando Casini, da sempre ostile ai diritti per la gay community (anche se ha votato per le unioni civili) e con la riconferma di tutti i cattodem, da Lepri a Fattorini, ovvero quella frangia interna al partito che da subito ha remato contro l’omogenitorialità. Come ricorda Marilena Grassadonia, presidente di Famiglie Arcobaleno, questa mossa è «l’ennesima dimostrazione che quell’accordo al ribasso sulle unioni civili non è stato un incidente di percorso, ma un disegno politico preciso».
Non è l’unico personaggio simbolico di cui il Pd fa a meno, in questa campagna elettorale che si profila come una rincorsa alle destre (becere, nel caso del panorama politico nostrano): anche Giusi Nicolini, ex sindaca di Lampedusa e in prima linea sulla questione migranti, non farà parte della prossima tornata elettorale. Se non ricandidando l’ex presidente di Arcigay, Renzi manda un messaggio chiaro all’elettorato cattolico – del tipo: “tranquilli, l’omosessuale padre e attivista ce lo siamo tolti di mezzo” – con questa scelta dà un segnale forte a chi, nel nostro Paese, guarda quanto meno con sospetto alle politiche di integrazione degli stranieri (profughi o no). Più in generale, Renzi sta rompendo definitivamente con il concetto di “sinistra”, marginalizzando proprio gli orlandiani (cioè la minoranza) che di quella sinistra rappresenta(va)no l’anima viva dentro il Pd.
Esultano, intanto, i soliti e le solite note. Si odono i rumors, dentro una frangia del femminismo nemico dell’omogenitorialità, di chi già chi si intesta la vittoria sull’esclusione di Lo Giudice. Ricordiamo, a tal proposito, che ArciLesbica qualche giorno fa ha incontrato la responsabile dei diritti civili dentro il Pd, Silvia Fregolent, attaccando direttamente il senatore bolognese. È da escludere che certe richieste abbiano fatto breccia, nel partito di Renzi. Pensare che dietro tale esclusione ci sia dietro lo zampino di un gruppo di persone rappresentative solo delle tessere che hanno in tasca è come attribuire ad un afide la potenza di fuoco di uno sciame di calabroni. La ragione è un’altra: Renzi perderà malissimo queste elezioni e vuole i suoi fedelissimi nei collegi sicuri. Le tensioni sulle candidature ci sono da giorni e riguardano non solo Bologna, ma anche la Toscana (dove Maria Elena Boschi è incandidabile), il Trentino Alto Adige (in cui si voleva paracadutare Boschi stessa e che ha generato paurosi mal di pancia alla Svp) e in altri collegi definiti sicuri. È solo il colpo di coda del renzismo che ha paura di morire. Solo che, per non soccombere, Renzi sta uccidendo ciò che rimane del Pd. Una fine ingloriosa per l’erede di due partiti che hanno fatto la storia della Repubblica (Pci e Dc, per chi non ha memoria).
In questo balletto, che definisco degradante, il Pd ha deciso di non ricandidare personaggi con un profilo riconoscibile su questioni che fanno la differenza, come i diritti delle persone Lgbt e migranti. Una scelta che è politica e che ricolloca la natura stessa del partito. Nel caso specidico di Sergio Lo Giudice, esclusione che mi tocca in prima persona in quanto membro della comunità arcobaleno, il partito ha rinunciato ad una persona che si è distinta per impegno politico senza inseguire le sirene della popolarità e del riscontro mediatico. Ha rinunciato ad una personalità che non solo prova a far politica, ma che ci prova con quel garbo istituzionale e quel senso della misura che potrebbero e dovrebbero essere da esempio a molti e a molte. Anche dentro lo stesso Partito democratico. Escludendolo, il Pd ha sancito il suo divorzio definitivo con una comunità che già ha molto da rimproverare a tale soggetto politico e che vedeva comunque, nella presenza di Lo Giudice, un ultimo spiraglio di credibilità sulle questioni Lgbt. Povera patria, canterebbe Battiato.