Pendolari della storiaDal proletariato al “Nullatariato”

Il passaggio da un'era industriale all'altra è sempre stato complesso. Nel lungo termine i vantaggi arrivano per tutti, ma la transizione può durare anche molti decenni, rovinando potenzialmente la...

Il passaggio da un’era industriale all’altra è sempre stato complesso. Nel lungo termine i vantaggi arrivano per tutti, ma la transizione può durare anche molti decenni, rovinando potenzialmente la vita di quei ceti sociali che erano abiutati al benessere nel paradigma precedente.

L’industria 4.0, i robot, gli algoritmi, ecc… sono ormai arrivati e nei prossimi anni saranno sempre più protagonisti. Questo è inevitabile. Ciò che non è affatto inevitabile è la risposta normativa al fenomeno. Decenni di “deregulation”, flessibilità selvaggia e “sacrifici” hanno reso l’individuo dei ceti medio-bassi sempre più povero e, soprattutto, solo.

La puntata di ieri di Presa Diretta (“Lavoratori alla spina”) è un’ottima base di partenza per capire ciò che accade oggi. In un’indagine sui lavoratori di alcune categorie, dai supermercati notturni alle consegne a domicilio, si è più volte parlato di “ritorno all’Ottocento”. Sarà vero?

Prendiamo la macchina del tempo e torniamo indietro di 200 anni, ad inizio Ottocento in Inghilterra. L’app di allora era la macchina a vapore e gli smartphone erano i telai meccanici. Sviluppo impetuoso, continua innovazione tecnologica e, soprattutto, qualcosa di mai visto prima. Due alieni piombati dal nulla. Il loro nome? Disoccupazione e precariato.

La vita nelle campagne era povera, dura, ma tendenzialmente stabile. Seguiva il ritmo delle stagioni e delle giornate. La prima rivoluzione industriale portò a quartieri sudici, dove masse di lavoratori anonimi lavoravano “alla giornata” senza alcun contratto, senza alcuna tutela e con orari infiniti. L’unica “ricchezza” di queste masse era costituita dalla “prole”, indotta normalmente al lavoro minorile.

Tornando velocemente ad oggi, con altre due rivoluzioni industriali in mezzo (energia e computer), voliamo alla 4.0. Il problema non è tanto se usiamo o meno la tecnologia, ma come essa influenzi la nostra qualità della vita. Nel momento di maggior ricchezza della storia, per andare dietro a fantomatiche “crescite” del PIL abbiamo distrutto la nostra identità. La flessibilità è diventata il mantra dominante, l’insicurezza la nostra maggiore compagna.

Per capire cosa significhi la differenza tra tecnologica e mentalità dominante, facciamo un esempio concreto. La tecnologia ci permette di avere un’app per unire domanda e offerta di hamburger a domicilio. Perfetto. Il consumatore ha una disponibilità a pagare per avere questo servizio. Il prezzo, banalmente, dipende dai costi del produttore e di quanto margine riesca ad ottenere dall’incontro con la domanda. Ma se io, con la scusa della “flessibilità” (che in realtà non esiste, se non lavori sempre vai fuori dal ranking e non fai più una consegna), dico che il mio fattorino è un “libero collaboratore” e non gli devo nessuna delle tutele dei dipendenti, il mio costo si abbassa e posso sfruttare questo risparmio riversandolo in un prezzo più competitivo o su margini più alti.

E’ qui che deve intervenire il legislatore. Perché il problema del lavoro odierno non riguarda solo le app, ma anche cose più vetuste come supermercati o logistica, con formule contrattuali talmente precarie che potrebbero tranquillamente risparmiare anche la carta con cui stamparle. Ah, c’è una differenza rispetto al passato. Quei lavoratori avevano la prole, gli sfruttati di oggi neanche quella.

Benvenuti nella classe sociale del Nullateriato. Talmente divisa e sola da non avere neanche una capacità di aggregazione sociale. In economia non esistono pasti gratis. La tua consegna gratuita la starà pagando indirettamente qualcun’altro.

Forse è il caso di alzare il culo dal divano ed uscire a mangiar fuori quell’hamburger, almeno non arriva freddo.

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