L’attuale dibattito, in vista delle elezioni politiche del 4 marzo prossimo, si è sviluppato attraverso le argomentazioni più varie. Fenomeno fisiologico, in un contesto democratico. Tutti i partiti, come è ovvio, si propongono come l’unica scelta possibile e, soprattutto, la migliore in campo. Tutti paventano la fine dei tempi, in caso di vittoria dell’avversario. E per arrivare alla vittoria – o per contenere la debacle delle urne – si mettono in campo strategie retoriche che hanno lo scopo di accattivarsi consensi, a svantaggio degli altri competitor. Tutto secondo copione insomma.
Tra gli argomenti portati avanti, soprattutto dentro il campo del cosiddetto centro-sinistra (restringendo, dal Pd in particolare) c’è quello del “voto utile”. Ed è su questo mi soffermerò. Tema, mi si permetta di dirlo, abbastanza odioso non tanto perché presuppone la solita superiorità morale di un soggetto politico su tutti gli altri (come già detto, questa strategia è nella natura stessa della competizione elettorale, quindi accettabile), ma perché – ed è questo l’aspetto irricevibile – gioca sulla reductio dell’elettorato che sceglie altri partiti collocati a sinistra ma non in coalizione con Renzi. In questo processo di riduzione, se non sei utile (appunto) ad uno (il Pd), diventi automaticamente dannoso.
Già il semplice concetto di “voto utile” è di per sé ambiguo, in quanto qualsiasi voto – dal punto di vista di questo o quel soggetto politico – si configura come utile a raggiungere lo scopo prefissato: la propria affermazione elettorale. Se dell’aggettivo in questione intendiamo il significato da dizionario, ovvero ciò «che serve o può servire, che si può usare per un bisogno, per uno scopo», qualsiasi voto rientra in questa definizione. Se il mio scopo è quello di portare una sinistra (più) radicale in parlamento – e qui dovremmo capire perché il desiderio di avvantaggiare forze siffatte non può essere legittimo – sarà utile votare Liberi e Uguali o altre formazioni, da Potere al Popolo in poi. Se il mio scopo è quello di depotenziare Renzi, anche solo per lanciare un messaggio alla “casa madre”, sarà utile sgonfiare le percentuali dei voti ingrossando la base degli elettori e operando un voto di protesta.
Si può certo contestare l’efficacia di questi provvedimenti o la loro ridotta lungimiranza, ed è legittimo. Così come è legittimo far notare che nella logica del meno peggio, su cui si basa il voto utile, il partito che ne beneficia tende poi a spostarsi su posizioni sempre più conservatrici: dando per scontato il voto progressista, si cerca poi di acchiappare consensi a destra. Ed è qui che subentra il secondo elemento di irricevibilità del discorso sul voto utile: la pretesa che i suffragi “di sinistra” debbano andare obbligatoriamente al principale partito di quell’area politica. Area che per questioni di geografia parlamentare sarebbe il Pd, appunto, visto che il centro e la destra dei due rami del parlamento sono occupati da altre forze. La domanda che si pone, però, è la seguente: quando Renzi, i suoi maggiorenti e i suoi supporter hanno acquisito il diritto di possesso su quei voti? E un’altra viene in automatico, conseguente: ma “sinistra”, nella narrazione renziana, non era diventato quasi un insulto?
Un terzo aspetto che aiuta a chiarire il quadro per cui le posizioni del voto utile – renzianamente inteso – sono da rigettare in toto, rientrano proprio nella narrazione appena accennata. L’elettorato “rosso”, che ha fatto sentire la sua voce per il referendum delle trivelle (per fare un esempio), è stato salutato con il proverbiale “ciaone” da un renziano di ferro. Parole come “gufi”, “rosiconi” ed altri termini che legavano la sinistra al concetto di irrilevanza (soprattutto elettorale, prima ancora che politica) sono state ingredienti lessicali primari nei rapporti tra “sinistra” di governo, di minoranza e di opposizione. Quand’è successo, di preciso, che quel minuto esercito di inconcludenti è divenuto, di punto in bianco, una forza necessaria per salvare il Paese? Come fa notare Civati, in un suo post, forse ci si poteva pensare prima: ad esempio, quando si è parlato di jobs act, “buona” scuola, riforma costituzionale e tante altre belle cose in cui erano tanti i “gufi” che volavano.
Ulteriore elemento da rigettare in toto: l’equazione per cui se non voti Pd (anzi, peggio: se voti partiti come LeU) voti per Salvini o aiuti Berlusconi. Varie possono essere le obiezioni a questa affermazione. Ad esempio, se volessimo ribaltare la cosa si potrebbe dire: vista la politica fallimentare di Renzi, che ha permesso alla destra di divenire più forte di prima, si dovrebbe dare una nuova chance ad altre forze, proprio a sinistra. Sul piano dei contenuti politici, ci si chiede come si può avere il coraggio di affermare che “però poi vince la destra” quando con il Pd al governo si sono fatte cose che la destra predicava da anni (articolo 18, do you know?). Ancora, poter votare una forza più o meno radicale può portare alle urne persone che altrimenti andrebbero a ingrossare le file del non voto: questo non è forse “utile”, alla democrazia quanto meno? Sul piano più pratico: il discorso sul voto assimilabile a quello di destre e fascisti è stato già usato per il referendum del 4 dicembre. Ha sortito gli effetti sperati? Sarebbe il caso di cambiare registro, insomma.
La dinamica prodotta è la seguente: pretendi che ti voti, fai le cose che piacciono a destra, mi insulti se te lo faccio notare e pretendi che ti voti ancora, insultandomi. E se ti faccio notare tutto questo, fingi anche che il problema non esiste o agiti il sempreverde “dopo di noi, il diluvio”. Ma non è continuando a trattare così una certa fetta di elettorato che se ne ottengono i consensi. Forse questa narrazione serve a coprire il vero problema dell’ennesimo divorzio consumato a sinistra: la leadership renziana. La quale si è basata proprio sulla frattura con quell’area politica – ricordate il coro “fuori fuori” alla Leopolda, sotto lo sguardo compiaciuto del segretario dem? – di cui però adesso si pretende fedeltà e obbedienza politica. Prospettiva che non reggerebbe nemmeno in un fantasy a sfondo demenziale, ma che viene usata come argomentazione primaria, preferibile anche ai grandi successi che il governo può vantare (e che per qualche strano motivo in pochi godono nel Paese).
La ricostruzione di un progetto politico parte dal riconoscimento dell’altro/a da sé, cosa che Renzi è incapace di fare. Forse è il caso riflettere su questo, magari dal 5 marzo. Fino ad allora, l’esistenza di due o più “sinistre” non va addebitata al puntiglio di un elettorato sostanzialmente cretino o ingrato, ma è conseguenza di una politica scellerata portata avanti dall’attuale classe dirigente del Pd. Non è chi vota a sinistra che deve giustificare le proprie scelte di voto, ma è chi ha determinato lo status quo che dovrebbe chiarire le ragioni per cui si è arrivati a questo punto. Renzi e i suoi, insomma, hanno ottenuto proprio quello che volevano. Chiedete a loro eventuali spiegazioni e finiamola con certe storielle, per altro molto arroganti.