Il populismo economico del M5S: una minaccia per l’Italia

Le elezioni del 4 marzo sono ormai alle porte. Diverse domande sul futuro del nostro paese – in particolare, sulla sua capacità di restare protagonista in Europa - sono in attesa di risposte. Diver...

Le elezioni del 4 marzo sono ormai alle porte. Diverse domande sul futuro del nostro paese – in particolare, sulla sua capacità di restare protagonista in Europa – sono in attesa di risposte. Diverse di queste domande, poi, riguardano il ruolo del M5S: per molti, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio – e che oggi candida il vicepresidente della Camera Di Maio alla guida del paese – rappresenta ancora una incognita del nostro sistema politico.

I Cinquestelle: troppo sottovalutati

In molti ancora si chiedono che cosa pensino davvero i Cinquestelle e che cosa potrebbero fare una volta al governo. La gran parte della classe dirigente italiana sembra indugiare, preferendo rimandare il giudizio in attesa di valutare le azioni concrete. Nel frattempo, molti ‘illuminati’ commentatori – che non hanno risparmiato pesanti censure nei confronti degli ultimi governi guidati dal partito democratico – oggi sembrano guardare con generosità ai ragazzi di Grillo.

Si tratta di atteggiamenti davvero incomprensibili da parte di una classe dirigente che vorrebbe ritenersi moderna e matura, ma che probabilmente non ha fatto nemmeno lo sforzo di leggere i contenuti del programma del M5S. I programmi saranno noiosi, certo, ma significano qualcosa. Ci aiutano a comprendere meglio che cosa c’è nella testa delle forze politiche che li hanno concepiti e, cosa ancora più importante, che cosa potranno combinare una volta conquistato il governo del paese.

Un programma economico nel segno del populismo

Diciamo subito che il programma del M5S è prima di tutto elefantiaco per le proporzioni: al confronto le famigerate e tanto bistrattate 262 pagine del programma prodiano dell’Unione del 2005 sono un nonnulla. Ma questo sarebbe il meno. Il programma dei Cinquestelle colpisce – almeno per chi l’ha letto – per la pericolosa sostanza populista dei suoi contenuti. Basti leggere, per tutti, il capitolo sullo sviluppo economico.

Il primo punto, decisivo, è l’intreccio tra l’ossessione verso una presunta minaccia neoliberista mondiale e una esplicita idolatria dello Stato. Qualcosa che non stupisce gli osservatori più avveduti. Tutti i populismi che si sono affermati nel globo, sia in America che in Europa, condividono questa caratteristica. Basti pensare ai populismi sudamericani, primo fra tutti quello del regime venezuelano, nato in opposizione alla libertà di mercato e di iniziativa e asserragliato nel fortilizio del sovranismo statalista, non a caso amato proprio dai Cinquestelle. Oppure al lepenismo francese, nemico del globalismo liberale e del libero commercio nel nome di una riscoperta della sovranità nazionale.

Alle pagine 6 e 7 del programma sullo sviluppo economico del M5S si trova così la tradizionale idiosincrasia nei confronti della libertà di mercato: “Il pensiero da contrastare è quello del neoliberismo spinto secondo il quale non conta la comunità ma rileva soltanto il singolo individuo, il quale deve essere auto imprenditore, perseguire il massimo profitto, e fare in modo che la ricchezza sia accentrata nelle mani di pochi”.

Contro il neoliberismo, la ‘fusione’ tra Stato e Popolo

L’alternativa è un investimento ‘totalitario’ sul ruolo dello stato: “Un intervento chiaro e programmato dello Stato per garantire il benessere dei cittadini, l’operatività delle imprese, la ricerca e l’innovazione tecnologica è il volano del rilancio del Paese”. Di più: secondo i grillini “lo Stato è il Popolo sovrano, e il benessere dei cittadini riflette direttamente il progresso e lo sviluppo della società”. Insomma, siamo di fronte ad una visione esplicitamente organicistica (e potenzialmente totalitaria) della vita pubblica nella quale stato e popolo coincidono in un corpo unico: è la completa negazione del pensiero liberale che distingue pragmaticamente le persone (i cittadini) dagli strumenti (le istituzioni). La globalizzazione e le liberalizzazioni, in questo quadro concettuale, rappresentano il nemico, alimentando la solita paccottiglia antimercatista: “il neoliberismo pone in essere un sistema economico deviato e predatorio, che porta pochi al benessere e molti alla miseria”.

Le misure semplicistiche del sovranismo

Quali sono le conseguenze di queste ‘credenze’ economiche e politiche? In primo luogo, spiega il programma, “si tratta di riportare la sovranità che si è spostata nei mercati all’interno degli Stati nazionali”, secondo la tipica logica sovranista che non accetta di fare i conti con il fatto che la vecchia sovranità nazionale è già svanita da un pezzo di fronte alla globalizzazione dei mercati e alla digitalizzazione dell’economia e che oggi soltanto soggetti istituzionali più ampi come l’Unione Europea possono realisticamente rispondere alla sfida della nuova dimensione globale dell’economia.

In secondo luogo, di conseguenza, “la salvezza sta nell’applicare la sezione terza, parte prima, della vigente Costituzione, che, a cominciare dagli anni ‘80, dopo trenta anni di benessere, è stata costantemente violata a causa di leggi criminogene che hanno privatizzato le banche, le industrie, i territori e persino i demani”. In questo caso, il richiamo ad una età dell’oro non più ripetibile, quella delle politiche socialdemocratiche del secondo ’900 (i cosiddetti “Trenta gloriosi”), si lega ad un ingenuo affidamento alle magnifiche sorti e progressive della Costituzione, come se la scrittura dei principi potesse bastare all’affermazione di politiche pubbliche efficaci.

Infine, ciliegina sulla torta, “in questo obiettivo diventa fondamentale anche rivedere le politiche comunitarie che vietano talvolta l’intervento dello Stato e secondo cui la BCE può dare denaro solo alle Banche”. Si apre, cioè, ad un vero e proprio ‘sbrego’ degli impegni europei da parte dell’Italia.

La questione del debito pubblico

D’altra parte, la ricostruzione dei fatti relativi alla crescita del nostro debito pubblico proposta a pagina 33 è imbarazzante per quanto è priva di profondità di storica. “Il nostro debito pubblico – vi si legge – è diventato un problema, da quando abbiamo perso la sovranità sul nostro istituto bancario centrale in seguito a riforme sbagliate applicate dagli anni 80, che hanno portato con Andreatta e Ciampi al divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia fino all’ingresso nell’euro (tutti i paesi che oggi hanno economie in grado di reagire alle crisi hanno una forte correlazione tra Tesoro e Banca Centrale)”. Insomma, una vera e propria mistificazione di processi di indebitamento ben più risalenti e provocati da ben diverse cause (tra le quali, per esempio, l’espansione scriteriata della spesa pensionistica e lo spreco di risorse pubbliche improduttive).

Ovviamente, per un movimento che si basa su analisi e soluzioni semplicistiche e che vede la palingenesi di ogni problema nello stimolare la domanda interna attraverso massicci investimenti statali nell’ambito dei confini nazionali, il contenimento del debito pubblico nel quadro degli impegni europei e internazionali non può che rappresentare un fastidio.

I deliri antieuropei del populismo grillino

Il programma del M5S recita infatti: “Purtroppo il nostro bilancio e quindi la nostra possibilità di spesa è stata vincolata a parametri numerici inseriti nei Trattati Europei, che non tengono minimamente conto delle priorità sociali, si limitano a evidenziare l’esigenza di rispettare i numeri senza una spiegazione economica e ancor meno razionale”. A partire da qui, il passo verso il delirio è breve: “Il nostro ambizioso programma – spiegano i Cinquestelle – vuole portare l’Italia a essere ispiratrice globale di un modello di sviluppo economico sostenibile. Per farlo avremo bisogno di maggiore sovranità economica. Bisognerà da una parte eliminare gli sprechi e combattere seriamente la corruzione, ma dall’altra sarà indispensabile affrontare con coraggio un duro confronto internazionale per liberarsi dalle catene dei vincoli numerici, economici e giuridici ingiusti sottoscritti con l’UE”.

Il dado è tratto, insomma. Basta combattere i due fantasmatici nemici, la casta corrotta e la dittatura dell’UE, per risolvere magicamente i problemi del paese. Il delirio continua con una ricetta facile facile, fatta di tre ingredienti: superare i vincoli di Maastricht, abolire il Fiscal Compact e abrogare il pareggio di bilancio dalla nostra Costituzione.

L’estrema minaccia: uscire dall’Eurozona

Ma il veloce cammino verso la rovina del paese è completato dalla madre di tutte le battaglie: la rinuncia alla moneta unica europea e la riproposizione di una moneta nazionale (svalutata). “L’unica soluzione per fare investimenti e sostenere l’economia – si legge a pagina 40 del programma grillino sullo sviluppo economico – è svalutare la moneta e gestire la politica monetaria attraverso una Banca centrale nazionale che controlli i tassi di interesse. L’euro non è concepito per la piena occupazione e la crescita dei Paesi del Sud Europa”. Dal discorso pubblico di questi giorni – apparentemente più moderato – del candidato Luigi Di Maio, l’uscita dall’Eurozona sembra ormai accantonata. Di Maio non parla più di referendum sull’Euro. Almeno così pare. Non bisogna farsi ingannare: lasciare l’Euro è ancora la strada maestra del populismo economico dei Cinquestelle.

C’è un altro esplicito richiamo a questo esito letale per l’economia italiana a pagina 92 del programma. Sotto la rubrica intitolata “Referendum per la permanenza nell’Euro” c’è scritto così: “In molti affermano che il referendum sull’euro è impossibile poiché l’articolo 75 della Costituzione lo vieta. E’ falso, per chiedere il parere del popolo si può infatti ricorrere ad un ‘referendum consultivo’. La storia italiana ha già visto un precedente: quello del 1989 quando si chiese al popolo italiano di esprimersi sul conferimento del mandato al Parlamento europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. In quel caso il Parlamento italiano approvò una legge costituzionale per far sì che si potesse tenere tale referendum”.

Insomma, la sfida è lanciata. Basterebbe un referendum consultivo per chiedere agli italiani di uscire dall’euro. Assai singolare che i commentatori della grande stampa italiana non si soffermino a sufficienza su questo genere di programmi e di promesse.

Che cosa ci ha insegnato la Brexit

Ma la malattia delle classi dirigenti italiane non è diversa da quella delle classi dirigenti europee. Il columnist conservatore John O’Sullivan, già consigliere di Margaret Thatcher, ha affermato che, dopo aver raggiunto l’obiettivo della Brexit, il populismo separatista britannico sia stato di fatto riassorbito dal sistema politico inglese. Con la sparizione dell’Ukip dal Parlamento inglese e con il governo conservatore impegnato nella implementazione della volontà popolare espressa dal referendum si è in qualche modo raggiunta la quadratura del cerchio. L’obiettivo politico è stato raggiunto, il partito populista si è estinto, i conservatori continuano a governare. “Bello, bello, bellissimo”, potrebbe dire una famosa sindaca d’Italia, populista anch’essa. Ma è proprio così semplice? A giudicare dalle conseguenze economiche negative che si stanno abbattendo sul Regno Unito a causa dell’uscita dall’Europa verrebbe da dire che i populisti saranno anche stati riassorbiti dal sistema, ma, nel frattempo, hanno lasciato soltanto macerie per i cittadini d’oltremanica.

A ciò si aggiunga che il legame dell’Italia con l’Europa è molto più forte rispetto a quello che aveva il Regno Unito. In primo luogo per motivi politici, perché l’Italia è un fondatore dell’Unione Europea fin dall’inizio. In secondo luogo, per motivi economici, perché appunto l’Italia condivide con altri paesi europei la moneta comune. L’uscita dell’Italia, pertanto, avrebbe conseguenze ancora più devastanti rispetto al caso della Brexit.

L’esperienza del Regno Unito ci dice, infine, un’altra cosa. Per quanta cialtroneria possa allignare nella classe politica, è difficile che, dopo aver fomentato per anni l’opinione pubblica, una promessa così importante possa essere ritrattata. Difatti, prima Farage ha cavalcato la Brexit. Poi Cameron ha accettato di svolgere il referendum. Con le conseguenze che ben conosciamo per tutti (letali anche per la sorte dei due politici britannici). Attenzione, dunque. Avallare le tesi del populismo sovranista del M5S comporterebbe ripercussioni tragiche per l’Italia. Bisognerà ricordarsene nelle urne il 4 marzo prossimo.

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