Un colpo di pistola sparato in pieno petto ha messo fine alla vita e alle inchieste di Jan Kuciak, giornalista ventisettenne trovato morto ammazzato nella sua casa di Velka Maka, a 65 chilometri da Bratislava, in Slovacchia. Insieme a lui è stata uccisa anche la sua compagna, con un colpo di pistola alla testa.
Jan Kuciak aveva scelto di indagare su temi delicati quali il nesso tra corruzione e frodi fiscali, non avendo mai paura di andare a intaccare i cosiddetti “poteri forti”. L’ultimo suo articolo, pubblicato sul giornale online per cui scriveva, risale al 9 febbraio e riguardava una sospetta frode fiscale collegata a un complesso di appartamenti di lusso a Bratislava in cui era coinvolto un noto imprenditore, vicino al governo, già indagato per un’altra presunta frode fiscale del valore di 8,19 milioni di euro. Più volte Jan Kuciak aveva scritto articoli che documentavano il coinvolgimento di alti funzionari del partito di governo in alcune frodi fiscali. Stando alle affermazioni dei giornali slovacchi Kuciak stava lavorando proprio a un’inchiesta in cui sarebbe stata coinvolta anche la mafia italiana, in particolare un gruppo criminale legato alla ‘ndrangheta, alcuni fondi europei e personaggi influenti del governo slovacco.
La sua morte appare come un’esecuzione in piena regola: qualcuno ha voluto mettere a tacere per sempre la penna scomoda e impertinente di Kuciak.
Oltre ad essere un attacco alla libertà di stampa, l’assassinio di un giornalista d’inchiesta giovane e promettente, rimanda subito alla mente un’altra brutale esecuzione, quella di Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger cinquantatreenne uccisa a Malta lo scorso 16 ottobre. Una bomba nascosta nella sua auto la fece saltare in aria dilaniandola, a pochi metri da casa sua.
Anche Daphne Caruana Galizia era una penna all’esclusivo servizio della verità, che con le sue inchieste aveva raccontato i retroscena emersi dai cosiddetti “Panama Papers”, tra corruzione e frodi fiscali in cui erano coinvolti, tra gli altri, politici di spicco maltesi. Pochi minuti prima di morire aveva pubblicato sul suo blog l’ennesimo post in cui raccontava dei flussi di denaro che si spostavano da un paradiso fiscale all’altro seguendo l’onda lunga della corruzione e del potere.
“Ci sono corrotti ovunque si guardi, la situazione è disperata”, queste le ultime parole scritte dalla giornalista maltese prima di essere uccisa.
Sia Jan Kuciak che Daphne Caruana Galicia, prima di essere uccisi, erano stati minacciati.
In tempi in cui assistiamo inermi alla indecorosa decomposizione del giornalismo, l’omicidio di due giornalisti d’inchiesta che vivevano nella ‘democratica’ Europa, deve far scattare un campanello d’allarme. Si fa strada sempre più l’idea di un giornalismo sempre meno cane da guardia del potere, ma pronto a scondizolare a comando; nell’immaginario collettivo il giornalista non è più il cercatore di notizie, ma solo il computatore di comunicati stampa già belli e pronti per essere pubblicati.
Questo rende il lavoro dei giornalisti d’inchiesta ancora più prezioso.
Oggi raccontare la realtà per quello che è, scavando nei buchi neri che nessuno vuole vedere, comporta conseguenze imprevedibili. Quando uno giornalista d’inchiesta viene fatto tacere per sempre, a essere colpito a morte è il diritto dei lettori a conoscere la verità.
L’unico modo per onorare la memoria di Daphne Caruana Galicia e Jan Kuciak è quello di portare avanti le loro inchieste, in nome di un giornalismo coraggioso, onesto e imparziale.