Grazie ad Antonio Manzoni (nota a fine articolo), per questo pezzo sui ‘beni comuni’ – diritto e ambiente (non solo…).
“Surriscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai”, “deforestazione”, “inquinamento dell’atmosfera e degli oceani”, e chi più ne ha più ne metta. Queste espressioni le abbiamo sentite così tante volte, da così tante fonti e in così tanti contesti, che sono quasi diventate dei luoghi comuni.
“Luogo comune” è proprio il termine adatto, visto che questi fenomeni hanno tutti un denominatore ‘comune’, cioè si riferiscono tutti alla grave situazione dei cosiddetti beni – indovinate un po’? – comuni.
Va bene, basta, la smetto.
E invece no, lasciatemene aggiungere un altro, di luoghi comuni.
Quello per cui noi, individui e cittadini, non abbiamo più nessun potere nell’influenzare le scelte politiche riguardanti la nostra società e che ci troviamo soggetti a un diritto calato dall’alto, che non ci rappresenta, che non sentiamo come nostro. Ecco, io credo che sia possibile sfatare entrambi questi due luoghi comuni. Come?
Proprio grazie a una nuova e cosciente consapevolezza della categoria giuridica dei beni comuni, che negli ultimi anni sta prendendo piede sempre di più a livello globale.
Ma procediamo con ordine: che cosa sono questi beni comuni?
Generalmente, quando pensiamo ad essi pensiamo agli oceani, ai fiumi, alle foreste, ai frutti della terra, ai ghiacciai, all’aria che respiriamo, ai beni archeologici e culturali, e via dicendo.
Tuttavia, sembra che anche questa categorizzazione sia in parte un luogo comune – un altro! -, visto che alcuni giuristi vi ci fanno rientrare anche quei prodotti della cooperazione sociale come, ad esempio, il linguaggio, la cultura e la rete web.
Quindi, in sostanza, nella categoria dei beni comuni vengono fatti rientrare elementi che sono anche parecchio eterogenei tra di loro, ovviamente non senza critiche (C. Iannello, “Beni pubblici versus beni comuni”).
Tuttavia, il fine di questo articolo non è quello di addentrarsi nei meandri del dibattito sulla tassonomia dei beni comuni.
Il fine di questo articolo è, invece, quello di presentare una categoria giuridica – quella dei beni comuni, appunto – che si sta affermando sempre di più non solo tra gli articoli di giuristi e accademici, ma anche nella quotidianità di tutti noi, in maniera a dir poco rivoluzionaria. In che senso?
Ora mi spiego. Forse la più innovativa peculiarità dei beni comuni, sottolineata anche da giuristi del calibro di Stefano Rodotà e Ugo Mattei (in primis, il suo Beni comuni – un manifesto, Laterza, Roma-Bari, (2011)), è proprio quella di rifuggire quella dicotomia ‘pubblico – privato’ che sembra ormai aver fatto il suo tempo, costituendo un tertium genus rispetto ad essi.
Da qui, si è posto il problema di dare un’appropriata veste giuridica a questi beni, non solo tramite una loro teorizzazione, ma anche attraverso una specifica previsione legislativa che esalti questa loro estraneità al binomio ‘pubblico – privato’.
Ed è qui che voglio sfatare il luogo comune più grosso – e vi prometto che è (forse) l’ultimo.
Perché, nonostante sia opinione diffusa (ahimè, molte volte confermata dalla realtà) che la politica italiana si trovi spesso a ‘seguire’ dei modelli piuttosto che ‘generarli’, questa volta, invece, la situazione sembra ribaltata.
Infatti, nel 2007 la Commissione presieduta da Rodotà e incaricata di redigere uno schema di riforma della disciplina dei beni pubblici (Libro III del Codice Civile), ha formalizzato una nozione dei beni comuni che è all’avanguardia nella scena internazionale.
Nello specifico, la Commissione ha specificato che i beni comuni sono beni “che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. (…)” [Relazione Commissione Rodota’, 2007].
Inoltre, “[s]ono beni che (…) soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche. La Commissione li ha definiti come cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità.
Per tali ragioni, si è ritenuto di prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future.” [Idem].
La portata di tali previsioni è immensa. Perché, come nota giustamente Mattei, “una tale definizione rompe a un tempo con la rigida distinzione tra pubblico e privato – spostandola nel mondo dell’irrilevanza giuridica rispetto a utilità che vanno comunque governate nell’interesse di tutti – e con quella dimensione del “qui e adesso” che rende miope la cultura giuridica e politica occidentale” [Cfr. Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015].
E che fine ha fatto il secondo mito da sfatare, quello secondo cui non siamo più in grado di influire sulle scelte politiche riguardanti la nostra comunità (o, perché no, l’intero pianeta)? I movimenti per la difesa dei beni comuni che, soprattutto nell’ultimo ventennio, hanno interessato varie parti del mondo, ci aiutano a dare una risposta a questa domanda.
Basti pensare alla guerra dell’acqua a Cochabamba, all’inizio del nuovo millennio (aprile 2000). Qui, il popolo boliviano si batté fieramente contro la privatizzazione dell’acqua, ottenendo infine una costituzione (2008) in cui non solo vengono espressamente tutelati i beni comuni (los benes colectivos), ma in cui dei veri e propri poteri si affidano “alla società civile organizzata la quale, attraverso un processo di coesione sociale, potrà esprimere concretamente i valori guida indicati all’interno del testo costituzionale” [D. Finamore, “I beni comuni nella costituzione boliviana”].
Oppure, si pensi alla costituzione dell’Ecuador del 2009 (l’unica, insieme a quella boliviana, che riconosca i beni comuni), anch’essa risultato di lunghe lotte contro le devastanti estrazioni petrolifere della Chevron che hanno, tra l’altro, distrutto alcuni degli ecosistemi più ricchi al mondo.
Ma anche il nostro paese non è da meno: il Referendum per l’Acqua Bene Comune (2011), l’Acqua Bene Comune di Napoli (2011), il Teatro Valle Occupato (2012), e molti altri (Cfr. Bailey, S., and Mattei, U., “Social Movements as Constituent Power: the Italian Struggle for the Commons.” Indiana Journal of Global Studies, 20:930, (2013); cfr. F. Capra and U. Mattei, The Ecology of Law, BK Publishers, San Francisco, (2015)), sono tutti esempi di un modo rivoluzionario di concepire il diritto.
Rivoluzionario, perché è un diritto che ‘parte dal basso’, facendosi portavoce delle istanze di una comunità per la difesa di beni che reputa essenziali, e che, quindi, non possono essere soggetti alle logiche del mercato o a qualsiasi accentramento del potere in mano a pochi.
Rivoluzionario perché, appunto, sfata il luogo comune per cui noi cittadini non possiamo cambiare lo status quo con le nostre azioni.
Antonio Manzoni, dopo la laurea in Giurisprudenza a Bologna, è volato a Londra, dove si trova tuttora, per un Master in Filosofia presso il King’s College. Di recente, ha iniziato ad interessarsi allo studio dei beni comuni, tematica su cui vorrebbe intraprendere un dottorato di ricerca.