Alla conferenza del partito Labour del 1976, James Callaghan, all’epoca premier britannico, fece il discorso piu’ difficile della sua carriera. Di fronte ad un partito ancora al comando del paese, messo alle corde dalla crisi della sterlina, la crisi energetica ed una situazione internazionale pesante, fu costretto a ventilare l’ipotesi ormai certezza che il futuro non sarebbe stato mai piu’ come prima e che non sarebbe stato, il partito labour, alla guida del paese. Stava perdendo le future elezioni questa specie di Titanic socialista che era il Labour prima del fuoco purificatore della Thatcher. Ma Callaghan fece un discorso di ammirabile onesta’ intellettuale e coraggio, ammettendo che, probabilmente, una parte della narrazione della crisi del paese era quella di una classe dirigente incapace a comprendere i cambiamenti epocali della societa’, una classe politica asserragliata sulle proprie rendite di posizione. Meritocrazia, efficienza produttiva, un progressismo meno radicale e luddista. Insomma, un partito Labour meno devoto al marxismo e piu’ a quelle forme di socialdemocrazia intermedie che promettevano un mondo piu’ equo alle classi operaie, soprattutto alimentandone aspirazioni e speranze. Cosa che fu lasciata al neoliberismo reaganiano e thatcheriano, del paese di padroni di casa, della crescita del debito personale e della fine dei diritti acquisiti. Ogni uomo un’isola, con le sue preoccupazioni su come pagarsi spese mediche, universitarie, pensionistiche.
‘It is not time to be cosy’, disse Callaghan, con profetismo incredibile. E, cosy, compiacente e rilassato nessuno dei Labour fu, il partito ridimensionato al voto. E cominciarono quei venti anni di dominio post-liberale dello smantellamento dello stato sociale. Delle promesse di benessere tramutate in promesse di debito.
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Quegli avamposti di società migliore che nascevano in molte zone dell’Europa, la Francia di Mitterrand e il centro e nord est italiani. Produttività, servizi sociali, piccola e media borghesia resa artefice del proprio destino. Non è il momento giusto di avere ambizioni collettive, sembrava dire Callaghan a quella classe media che, nel resto del suo discorso, sembrava aver beneficiato di enormi cambiamenti e miglioramenti. Probabilmente era vero, ma è anche vero che la prosperità inglese era il risultato delle sue politiche finanziarie, della svalutazione e del suo ancora vicino passato coloniale.
Nacque il punk in quegli anni, il nichilismo che entrava con le sue chitarre nel linguaggio dei giovani e il dissenso non per un’idea perseguibile di mondo migliore, ma dissenso per il dissenso, per sradicarla proprio la società. Od era, forse, solo una posa dei ragazzi della classe medio-borghese.
Non è tempo di essere accondiscendenti e sensibili, sono giorni di battaglia e di lacrime e sangue, di cambiamenti, fece capire Callaghan. Come fa un vero politico, che sa annusare le difficoltà e interpreta quei sentori di cambiamento per modificare la visione e la destinazione del logos. Mala tempora currunt. Il politico vero è quello che non annuncia mai che stiamo vivendo in momenti di grande benessere, perché’ tutto può cambiare velocemente o che è sicuro che ci sia luce alla fine del tunnel. Ma è uno che sa che esiste un’uscita, un punto in cui tornare in superficie dove, magari, è tutto ancora avvolto nelle tenebre, nel crepuscolo del primissimo momento del mattino. Ma da qualche parte il Sole deve tornare a sorgere e verso quel punto, nell’istante del chiarore primigenio, potremo tornare a muoverci, a camminare. Ma, prima di tutto, doccia di realismo, rispetto ad un paese, il Regno Unito del 1976, come l’Italia del 2018, diviso, strattonato fra un futuro di grandi cambiamenti ed un presente di cocenti delusioni. Eppure, quel senso di responsabilità per le scelte magari sbagliate, non testabili alla luce dei cicli politici alla Modigliani, non riecheggia da nessuna parte nel logos politico italiano. Non si sentono chiamate ad una austerità del pensiero politico, un riconoscimento che una parte del paese, quella più debole, sia stata abbandonata od addirittura ignorata, nel gioco autoreferenziale di cifre senza anime dietro, di mille storie di persone che non ce la fanno ogni giorno, contro quelle eccellenze marginali di chi riesce ad emergere.
Le paure della classe media si sono materializzate. Nel 1976 erano giovani con le spille da balia nel naso, la dialettica di chi aveva appena letto Bakunin in opposizione, oggi, a chi crede che dietro a certi risultati elettorali ci sia una mano longa di poteri sconosciuti. Alla classe media allora faceva paura l’anarchia, conseguenza di benessere e di certezze finanziarie, mentre oggi il timore nasce dall’incertezza sulla tenuta della società in quanto tale, una società orizzontale, dove per ora si sono organizzati trasversalmente solo i rancori e gli odi, le difficoltà e le cospirazioni. Non c’è bisogno di esperti di big data o di siti farlocchi per attingere alla sorgente di paura e terrore per il futuro della maggioranza degli Italiani. Paura dell’altro, dello straniero, gelosia sociale, camere dell’eco e, spesso, stanze insonorizzate, perlomeno agli orecchi dei politici dei salotti. Il paese non è impazzito, ma si difende, prova a cambiare, a travolgere quei bastioni della Masada parlamentare. Senza, forse, crederci. Come nessuno dei suoi fautori credeva nel punk. Perlomeno in quello iniziale, nessuno credeva o voleva credere al No Future. Ci vollero dodici anni per avere gli Smiths a dirci che, dopo tutti quegli anni, anche il sogno della Thatcher era finito, morto. La regina era morta. Nel video di Derek Jarman, si vede una Londra desolata, periferica, dolorosa. Una scritta enorme che, dicono alcuni, è sopravvissuta per anni nei docks di Londra. E pure Jarman ammise che girò quel video per farci due soldi. Come Malcom Mc Laren fece con i gruppi musicali, per vendere abiti. Ma qualcosa andò meglio del previsto, perché’ il punk ci introdusse ad un momento di grande creatività, fu possibile inventarsi tanto da poco, fu possibile inventarsi mondi paralleli, indie, alternativi.
Mondi nuovi, diversi, senza pregiudizi. Senza quegli anni memorabili non ci saremmo mai liberati. Altro che 1968. Fu il 1976 l’anno mirabile in cui la crisi genero’ miriadi di farfalle ed efebi danzanti.
Ed oggi, un altro momento storico in cui non è possibile accomodarsi, in cui non è sano pensare che tutto va bene e che tutto possa tornare a come era prima. In una forma di passato perfetto.
Esiste un presente che non rende giustizia al 99% delle persone che vivono sul pianeta, in una maniera o nell’altra. Esiste un presente che ci fa temere il futuro, ci fa guardare ad ogni nube come se non ne avessimo mai viste di simili e pensiamo di essere fottuti dal clima. Esiste questo presente ed arriva dal passato, dalle mancanze, dagli errori, dalle approssimazioni, dagli ego alla ribalta, dall’incompetenza e dalla mancanza di energia e fibra morale.
Come ogni volta una classe dirigente si accomoda. Come ogni volta che un sistema si arroga il diritto di garantirsi la sopravvivenza, piuttosto che permettere il progresso. Lo vide Callaghan, nel 1976. Nel pubblico del congresso Labour. E si vede oggi, nelle discussioni politiche, nei dibattiti su elementi marginali delle questioni abnormi che abbiamo davanti.
E sono allora i 99%ers a prendere la parola, i giovani americani che devono imparare a sopravvivere ad una sparatoria in classe (e, come premio, quando fanno le esercitazioni bene ricevono un lecca-lecca od un gelato), Emma Gonzales che ammutolisce una nazione intera con il suo stesso silenzio, sono i professori e studenti inglesi che scioperano ed occupano come se Londra e il Regno Unito si fossero risvegliati al loro stesso 1968, sono gli universitari francesi, assediati nelle loro classi, dove vogliono impedire un’altra svendita dell’educazione, sono i migranti in linea lungo deserti, valli, strade confinali. E sono tutti i pensieri, le foto, le connessioni che affollano i social media, rivelati nel loro vero potere: quello della società orizzontale. Questo non c’era ai tempi di Callaghan, non esisteva la rete e non esisteva la possibilità di fare esperienza del resto del mondo come accade oggi. Come accade nella nostra quotidianita’. These are not cosy times, indeed. Ma esiste un sommovimento globale, come se la massa, le folle, o l’unione di individualità diverse stia davvero rivoluzionando tutto. Nel 1976 furono le chitarre e le borchie a raccontare di una generazione implosa, i Sex Pistols in UK, ma, ricordiamocelo, le Brigate Rosse in Italia, la RAF in Germania e le mille variegate differenze di gruppi neofascisti in tutta Europa.
La società si sta riorganizzando, senza passare attraverso i gangli del potere, del sistema usuale. Allora, normale che una parte del sistema se ne sia resa conto e cerchi di capire come reagire, come capire cosa le persone, le masse pensino. Ma esiste un problema: l’unione delle persone, delle idee, gli scambi che accadono oggi sono ben più grandi, creano ben più connessioni e generazioni di nuovi universi che nessuna macchina possa capire in tempo. Perlomeno, siamo, come razza, abituati a cambiare. Si chiama plasticità del cervello. Si chiama adattamento. E, una volta, le persone non avevano le connessioni, non avevano le sinapsi. Oggi accade. E le persone vivono sulle emozioni, sanno cosa scatena il pianto, il riso, la commozione. La ribellione. In fondo a tutte le pagine facebook, instagram, in fondo a tutte le chat di qualsiasi app, Whatsapp, etc. esiste quel tormentato desiderio di meglio, di amore, di comprensione e di futuro. E la politica ignora, come molti nelle stanze dei bottoni, che le persone sanno soffrire, attendere, sperare anche quando non ci sono speranze. Le persone sanno che potrebbe non esserci nessuna luce alla fine del tunnel, non potrebbe esserci nessun bagliore, ma, da qualche parte, c’è una via di uscita. E che siano le tenebre, quelle appena prima dell’alba. La fessura nella roccia che fa passare appena un refolo di vento e non ancora la luce raccontata da Leonard Cohen. Ma, una volta qualcuno trova la strada, gli altri possono seguirlo. Sono non tempi in cui essere comodi, ma sono tempi in cui farsi tutte le domande, esigere le rispose, e chiedersi, con un certo senso di orgoglio, se la meritiamo davvero una politica senza preparazione, competenza e umanità, se non posticcia. Se la meritiamo davvero una società dove i deboli, i poveri, i giovani, gli anziani, e sempre più tutti i lavoratori, sono costretti a diventare esperti di finanza e pensioni, per capire cosa accadrà nel loro futuro. Se la meritiamo davvero una società dove i diritti fondamentali delle persone, ad amare chi vogliono, a poter studiare, il diritto di base a poter essere migliori ogni giorno, viene negato o interpretato per venderci qualcosa.
These are not cosy times. Ma nessuno ci impedisce che siano tempi eccitanti, felici e di scoperta del presente, di quello che siamo e vogliamo essere. Mentre saliamo lungo la fessura che porta fuori. Non ci sara’ ancora il sole, ma ci sono le stelle.
P.S.
Ricordo di aver visto il concerto per le vittime di Manchester con mia figlia piu’ grande, sul divano di casa. E, in questi anni, siamo stati in piazza, in cortei assieme, nelle settimane dopo il voto americano, contro la Brexit. Siamo scesi assieme, anche con la piccola e mia moglie, due millennial e due post-baby boomers, per unire la voce. E abbiamo continuato, perché’ il mondo lo permette, a fare quello che possiamo per cambiare i cento metri quadrati attorno a noi. Per i diritti dei professori e dei lavoratori delle università inglesi, e dando tempo a quelle cause in cui crediamo. Dall’Europa ai diritti di tutti ad avere una famiglia. Non siamo persone particolari, ma viviamo e siamo coscienti di vivere in un’epoca in cui tanto può essere fatto, pur con poco. Come nell’etica punk. Tanto con poco. Come Miley Cyrus. Quando canto’ a Manchester ‘Don’t dream is over’ capi’ che la Disney Channel Generation ha idee molto piu’ chiare e migliori di come dovrebbe essere il mondo di tutta la fottutissima MTV Generation di cui faccio parte. They know these are not cosy time.
Ieri ho visto Emma Gonzales, sempre con mia figlia, con quei sei minuti e venti secondi di silenzio alla manifestazione di Washington contro la proliferazione delle armi. Un momento che dice tantissimo su tante parole, su quante parole sono sprecate per raccontare, per enunciare e fare grandi discorsi. Grandi concetti. Quando quel che conta è rimettere al proprio posto l’empatia verso i propri desideri. E ricominciare a dare nuovi nomi alle cose. Come non facciamo da decenni. O non dare nessun nome al dolore ed al futuro, sperando solo che sia migliore.
‘I looked anew at unnameable things, or at least things whose essence is flicker, flow. I readmitted the sadness of our eventual extinction, and the injustice of our extinction of others. I stopped smugly repeating Everything that can be thought at all can be thought clearly and wondered anew, can everything be thought’
Maggie Nelson, The Argonauts (pag. 5 edizione Melville 2015)
Soundtrack:
Leonard Cohen – Anthem https://www.youtube.com/watch?v=6wRYjtvIYK0
The Clash – Live in Hamburg 1977 https://www.youtube.com/watch?v=feH9NVtYtJM
Miley Cyrus and Alessia Grande – Don’t dream is over https://www.youtube.com/watch?v=9LiI6poe3QE
The Smiths – The Queen is dead. https://www.youtube.com/watch?v=sT0-OkIl0Dw