Moonee accompagna la sua nuova amica Jancey, e tutti noi, alla scoperta del suo piccolo mondo, in un’avventura piena di personaggi eccentrici, che vivono la propria esistenza al limite, in una guerra quotidiana contro la povertà e i propri vicini di casa (o sarebbe meglio dire di stanza), mentre Bobby, il manager del motel violaceo Magic Castle (un Willem Dafoe in forma straordinaria), ripercorre notte e giorno le stesse azioni, gli stessi avvertimenti, per garantire un fragile equilibrio all’interno della comunità. Il titolo italiano del sesto lungometraggio di Sean Baker, “Un sogno chiamato Florida”, non ci aiuta granché a comprendere l’immaginario del suo nuovo lavoro. Del sogno chiamato Florida o ancor meno di quello americano, Moonee, Scooty, Dicky e Jancey non ne hanno mai sentito parlare, non riescono neppure a intravederlo. È vero, Walt Disney World è nelle vicinanze, ma il loro mondo è confinato in motel dai colori psichedelici e da nomi altisonanti (Magic Castle, FutureLand), dove possono permettersi soltanto qualche breve “celebrazione”. Il film si apre infatti con “Celebration” degli indimenticati Kool & the Gang di Jersey City e il passatempo di giornata consiste nel centrare dal davanzale, a forza di sputi, l’auto dei nuovi arrivati a FutureLand. Nessun vero evento e men che meno nessun vero sogno o miraggio, soltanto una moltitudine di bambinate, piccole o gigantesche, parole sconce, parole oscene, il tutto cadenzato da una quotidianità che non ammette un vero orizzonte. E anche il microcosmo degli adulti, stipati in questi motel, procede all’unisono, tra sigarette fumate intere o a metà, urla che scuotono e riecheggiano, la polizia che viene spesso a fare visita, per arrestare qualcuno o per sedare qualche rissa.
Il confine tra le vite dei bambini e degli adulti è dunque molto sottile, neorealista. Gli adulti e in particolare la madre della piccola Moonee, Halley, sembrano appena fuggiti da un set di Harmony Korine (che non ha a caso l’ha voluta nel suo ultimo film): di pelle bianca, emarginati, tempestati di tatuaggi, svuotati interiormente e del propro futuro, estromessi dall’America sfavillante e trasognante delle grandi metropoli o dei quartieri abbienti, perennemente nell’incertezza della propria sopravvivenza, della perdita definitiva della proprio dignità, della completa alienazione. Sean Baker aveva già raccontato storie di emarginazione o di ambienti eccentrici, come Tinseltown L.A., dove aveva ambientato il suo penultimo film “Tangerine”, storia della transessuale Sin-Dee Rella, che determinata a scoprire la verità sul fidanzato Chester, veniva travolta dalle varie sottoculture di Los Angeles. I film di Baker però, soprattutto dopo l’elezione di Trump, non sono stati gli unici ad approfondire e a nutrire un interesse minuzioso verso l’”altra faccia dell’America”, quella emarginata, di pelle bianca, potenziale elettrice e devota del tycoon newyorkese, denominata sovente senza particolari giri di parole “white trash” (spazzatura bianca) o “redneck” (colli rossi). Gli esempi più notevoli e recenti sono stati il pluripremiato “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh e “La truffa dei Logan” di Steven Soderbergh. Ma anche il regista marchigiano Roberto Minervini, già nel 2015, presentò al Festival di Cannes un affresco ragguardevole come “Louisiana – The Other Side”.