#TsurezuregusaFEFF20 – Far East Film Festival 2018 (alcune recensioni)

Udine - Festeggia vent’anni il festival italiano dedicato al cinema dell’estremo oriente – FEFF dal 20 al 28 aprile a Udine - e lo fa in grande stile, portando in sala 81 lungometraggi provenienti ...

Udine – Festeggia vent’anni il festival italiano dedicato al cinema dell’estremo oriente – FEFF dal 20 al 28 aprile a Udine – e lo fa in grande stile, portando in sala 81 lungometraggi provenienti da Cina, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine. Un festival per appassionati che fa parlare di sé nel mondo e che per oltre una settimana trasforma il capoluogo friulano nell’epicentro europeo del cinema asiatico. Basta recarsi nella hall del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, sede principale della kermesse, per rendersene conto e incontrare giornalisti e cinefili da ogni parte d’ Europa ma anche oltre. Trascinata dall’inesauribile forza de “Il Libro del Ramen” presentato domenica 22 aprile nella sede del Visionario insieme a Luca Catalfamo che per l’occasione ha allestito una “Casa Ramen” udinese con un menù ad hoc, sono sbarcata anche io a Udine per una due giorni intensa che mi ha permesso di incontrare amici vecchi, conoscerne di nuovi e vedere film bellissimi che vi racconto qui (insieme alle recensioni di Giulio Pugliese).

Gelso d’Oro a Brigitte Lin Ching Hsia – Bellissima e statuaria, è la musa di Wong Kar-Wai, icona del cinema taiwanese e di Hong Kong degli anni ’80 a ricevere quest’anno il Gelso d’Oro alla carriera. Con oltre 100 pellicole all’attivo tra il 1972, anno del suo debutto, fino al 1994, anno del suo ritiro, Brigitte Lin è considerata la dea del cinema di Taiwan. Wong Kar-wai ne fece il cuore pulsante di Hong Kong Express e Ashes of Time. Brigitte Lin Ching Hsia è stata una grande attrice anche in film in costume, quelli detti di “cappa e spada” ed ha interpretato anche ruoli maschili. “La mia natura è piuttosto timida” ha spiegato in conferenza stampa “e il mio ambiente ideale sono i film indipendenti, come quelli che facevamo a Taiwan negli anni ’70, ma in ogni ruolo che ho fatto c’è sicuramente una parte di me. Anche nei ruoli più duri ho attinto dalle mie paure per poterli recitare al meglio”. Tra gli anni ’70 e ’90 Brigitte Lin è passata dalle piccole produzione taiwanesi – un cinema fai-da-te dove “ci truccavamo da soli e prendevamo i vestiti dal nostro armadio” – alle mega produzioni di Hong Kong. Per ricordare l’inizio del cinema di Taiwan, al quale si sente particolarmente legata, ha scritto anche il libro Inside and Outside the Window, una raccolta di saggi sulla sua vita dentro e fuori dal set. “Quando giravo a Taiwan, amavo così tanto stare sul set che capitava che rimanessi anche dopo le riprese. Mi sentivo a casa, era come se fosse una cena bellissima che non volevo che finisse mai. Tutti sono stati sempre molto gentili e di supporto con me, e di questo gliene sarò per sempre grata”. Il Far East Film Festival “distillerà” una piccola e preziosa retrospettiva a questa grande icona del cinema e omaggio nell’omaggio porta a Udine la prima europea del Cloud of Romance (1977), appena restaurato dal Taiwan Film Institute. Brigitte Lin è arrivata a Udine accompagnata dalla famosa produttrice Nansun Shi, Gelso d’Oro al FEFF17 e dalla figlia.

Chunking Express – Wong Kar-Wai, HK (1994) – Classico. Due storie d’amore parallele per il classico dei classici di Wong Kar-Wai, che vede trai protagonisti del film alcune delle massime icone del cinema di Hong Kong e Taiwanese: un giovanissimo Kaneshiro Takeshi che in quegli anni faceva sognare le donne di mezzo mondo e Brigitte Lin, qui in una delle sue massime espressioni di donna fatale. Il secondo episodio vede poi la presenza di Faye Wong che la impose per la sua bellezza sofisticata ed androgina e Tony Leung Chiu-Wai, una delle più grandi star del cinema cinese. La cinepresa di Wong Kar-Wai, sempre sognante e delicata, ci riporta in una Hong Kong dei vicoli sporchi, oggi quasi scomparsa dove le vite si incontrano e si sfiorano. Un film fatto di suggestioni, che racconta di destini incrociati e sogni ad occhi aperti nella cornice unica di una coloratissima Hong Kong anni ’90 piena di luci. La colonna sonora, Dreams dei Cranberries, cantata in cinese, è stupenda e da il tono a tutto il film.

Side Job – Hiroki Ryuichi, JPN (2017) Premier Italiana. Drammatico – A sette anni dalla tragedia di Fukushima il Giappone si interroga ancora sulla distruzione che lo tsunami ha portato. Vite devastate, domande senza risposta, disperazioni nascoste: Hiroki Ryuichi originario proprio di Fukushima, dopo “River” torna ad indagare uno dei temi cari al cinema giapponese, l’impossibilità di comunicare e la tragedia del 2011. Uno spaccato di Giappone popolato da anime che non riescono a trovare la speranza anche quando ognuno cerca di fare del proprio meglio per superare le ferite. Le storie raccontate sono cicatrici indelebili nelle vite dei protagonisti a cui non è di conforto neanche la comprensione perché lassù nella regione del Tohoku, a Fukushima così come a Iwaki o nei paesi limitrofi come Minami-soma, gli “hot spot” ci sono ancora, così come c’è la limit-zone dove non si può entrare. A piangere con le lacrime silenziose di una vita che non tornerà è anche il territorio, appiattito, i paesi deserti e pieni di sterpaglie, oppure quelli spazzati via insieme alla sua gente. A raccontarci lo smarrimento che appartiene però a tutti i personaggi del film, è la protagonista, Miyuki Kanazawa (la bellissima Kumi Takiuchi) una ragazza impiegata nell’amministrazione locale, e che cerca di “evadere” da quella vita scegliendo un “side job” da prostituta a Tokyo. Il film si chiude comunque su note rosa: la nascita di una bambina e quella di un cucciolo, a indicare che un futuro è possibile. Il film è tratto dal romanzo dello stesso Hiroki dall’emblematico titolo di Kanojo no jinsei machigai ja nai (La vita di questa ragazza non è un errore).

The Battleship Island – Ryoo Seung-wan, KOR (2017). Storico – Questa mega-produzione coreana costata ben 21 milioni di dollari, a detta degli organizzatori del FEFF, è una sorta di “prison movie” condito da elementi storici: durante gli ultimi concitati anni della seconda guerra mondiale la produzione industriale nipponica poggiava principalmente sull’uso di manovalanza straniera e forme di lavoro coatto che coinvolgeva prigionieri di guerra e sudditi dell’impero non adatti al reclutamento. Al largo delle coste del Kyushu, vicino Nagasaki, giace l’isola di Hashima, dalla forma simile a quella di una nave da guerra – da qui il titolo The Battleship Island – ed il cui sottosuolo è ricco di miniere di carbone. Qui i coreani venivano spesso costretti (o indotti con l’inganno) ai lavori forzati in un complesso minerario-prigione. Il film documenta in maniera romanzata come alcuni dei protagonisti del film arrivino sull’isola riuscendo ad escogitare una fuga ed una sorta di mini-resistenza contro i diavoli giapponesi ed i collaborazionisti coreani. Prima della proiezione del film il regista ha dichiarato come questo film sia stato il suo lavoro più impegnativo e spera che la pellicola rimanga nel cuore di ogni singolo spettatore. Ha spiegato come in Corea il processo di lenimento delle sofferenze subite passi sempre più attraverso la catarsi cinematografica. Va però detto che, alla necessità di tenere viva la memoria sulle pagine più scure dell’imperialismo giapponese – ed Hashima costituisce sicuramente un capitolo a se’ – il film enfatizza un vittimismo caricaturale, dove i giapponesi – non solo le forze di sicurezza, ma anche e soprattutto il management dello stabilimento minerario —spara sui coreani in fuga ghignando, dove i collaborazionisti sono cattivi tout court e motivati solo da denaro e sete di potere. Viene dunque da chiedersi a quale tipo di lenimento di sofferenze si riferisse il regista. A mio modo di vedere si tratta della mercificazione di un sempre più diffuso nazionalismo vittimista, anti-giapponese: come dimostrato dall’impeachment di Park Gun-He, La Corea del Sud rimane una società profondamente divisa. Paradossalmente uno dei pochi legami che riesce ad unire i progressisti e i conservatori è il nazionalismo anti-giapponese. (Recensione di Giulio Pugliese, Lecturer in War Studies (Japan and East Asian Security) al King’s College London)

Wolf Warrior II – Wu Jing, CHN (2017) – Azione. Wolf Warrior II, campione di incassi in Cina, è sintomatico del nuovo Zeitgeist nella Cina di Xi Jinping: quasi due ore e mezzo di esplosioni per il James Bond cinese. Come scrivo nel mio libro Sino-Japanese Power Politics: Might, Money and Minds, la Repubblica Popolare Cinese di Xi Jinping ha spinto per una politica estera più assertiva e dal profilo marcatamente globale: insieme agli investimenti e agli interessi economici in paesi lontani, come il fantomatico stato africano raffigurato nel film, va da se’ che la Cina debba proteggere i propri cittadini in situazioni di emergenza in territorio straniero. In questa vena, il film è notevole poiché non rimarca solo i benefici economici, tecnico-scientifici e medici della presenza cinese in Africa, ma anche quelli sul fronte sicurezza, fronte sul quale la Cina di Deng Xiaoping e dei suoi successori ha spesso mantenuto una politica di basso profilo, che solo ora sta alzando la testa anche su scala globale. Se all’ambasciata americana risponde la segreteria telefonica, le forze dell’Esercito di Liberazione Popolare sono le uniche rimaste al largo del fantomatico stato africano dilaniato da una guerra civile ferocissima. Ancora più notevole è la decisione dell’Esercito di Liberazione Popolare di usare la forza in territorio straniero senza autorizzazione ONU, ma per salvare lavoratori cinesi e africani alla mercé di forze rivoluzionarie terroristiche e sadici mercenari “europei” capeggiati da un americano, tale Big Daddy. Grazie alla dimostrazione di forza, la bandiera cinese è rispettata e presumibilmente temuta da tutti. Il film è notevole per la componente propagandistica e la serializzazione della fortunata serie di film: i cinesi hanno ora il loro James Bond: il film è “un’americanata con caratteristiche cinesi”. Possiamo chiamarla una “cinesata”? Mission: Accomplished. (Recensione di Giulio Pugliese, Lecturer in War Studies (Japan and East Asian Security) al King’s College London)

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter