Sia chiaro: nessuno deve togliere meriti alla Roma, a questa Roma che prende il Barcellona e lo scuote dalle fondamenta, lo schiaffeggia pure male e lo rimanda a casa avvolto nella carta dei giornali spagnoli, che già dopo il sorteggio avevano esultato sfacciatamente. Ecco, partiamo da qui, dai giornali spagnoli. Se non avessero parlato di urna benevola, di Barça che già sogna il triplete e di conseguente chiamata ai lavori per allargare le bacheche del Camp Nou, la cosa ci avrebbe quantomeno sorpreso. Senza farne un discorso troppo allargato di cultura, che qui a generalizzare si fa in un attimo, non è certo la prima volta che in Spagna se la sentono caldissima: per dire, è già passato alla storia il video di quel giornalista che esultò quando il Real pescò la Juve in Champions in semifinale: indovinate chi passò? Ecco.
Sempre volendo evitare ogni generalizzazione, si può però dire che esistono vari ecosistemi dentro i quali crescono un certo tipo di calcio, di tifo e di informazione. Qualcuno appunto la chiamerebbe “cultura sportiva” e di solito la nostra è spesso e volentieri presa ad esempio come inferiore rispetto ad altre del Vecchio Continente. Ma non è quest’ultimo il punto. E non lo è nemmeno dire che il nostro calcio sembrava morto ma forse vedi che non lo è, che sti spagnoli ci battono sempre ma allora però dobbiamo mettere un quasi davanti, eccetera. Il punto parrebbe qui un altro, se si parla di Roma-Barcellona, la partita che ha riportato i giallorossi in semifinale da un’assenza che durava dal 1984. E cioè che ieri il Barça non ha fatto il Barça. Forte del 4-1 dell’andata, dove già comunque non si era visto esattamente tutto questo granché (ma ora è facile dirlo, chiaro), ieri sera all’Olimpico gli spagnoli che tremare il mondo fanno con il possesso palla, le trame, i fraseggi e la velocità hanno deciso di fare quello che in fondo non fanno praticamente mai: si sono difesi e basta. Senza attenzione sugli inserimenti (vedi il primo gol). senza saper leggere i calci piazzati (vedi il terzo).
I catalani figli di Cruyff e Guardiola hanno voluto voluto fare una partita all’italiana e sono finiti per estrarne una brutta copia, perché un conto è difendersi con ordine, amministrare si dice in questi casi; un altro è voler cambiare il tuo gioco, la tua natura e oseremmo dire quindi la tua cultura. Nasci, cresci, diventi olandese, ti evolvi in tiqui-taqa e falso nueve e poi decidi da un momento all’altro che il tuo retroterra cultural-calcistico non va più bene. E fai il catenaccio. E lo fai malissimo. E perdi una semifinale così, in modo assurdo, con Don Andres e Messi che guardano nel vuoto, laddove qualche anno prima avevano alzato la Champions con il tiqui taqa e ci siamo capiti.
Ed è anche qui che si innestano i meriti, i grandi meriti di Eusebio Di Francesco. Che catenacciaro non è, non lo è mai stato nemmeno quando doveva sgomitare nelle paludi della bassa classifica con il Sassuolo, non a caso poi portato fino all’Europa League. Quello di Di Francesco è un calcio che può facilmente essere riconosciuto come più “propositivo” rispetto a quello di Allegri con la Juve, ma qui il discorso rischia di farsi lungo e complicato. Quel che va sottolineato – questo sì, senza rischio di generalizzare – è che quell’ecosistema chiamato calcio italiano negli ultimi anni ha espresso nonostante la crisi degli stili di gioco diversi e che le hanno permesso di centrare due finali e una semifinale che chissà cos’altro può diventare. Più che una consolazione, con l’Italia che fra due mesi non partirà per la Russia. Godiamocela tutta.