Da dove arriva, mi chiede l’agente doganale a Newark, un ragazzo di colore dal sorriso aperto e sereno. Saperlo, vorrei rispondere. Non lo so, vorrei aggiungere, non e’ neanche lecito chiederlo piu’. Sono un’onda, gli vorrei dire, un insieme di onde e spiegargli la differenza fra wave e vague. In inglese, onda viene da waver, un termine dal tesdesco antico che indicava lo spostarsi con intenzione, mentre in francese, vague viene da vago, incerto, non definito. E vorrei dirgli che, forse, siamo davvero diventati tutti elettroni impazziti, eccitati dalla costante presenza di campi elettromagnetici attornok a noi.
Da dove arrivo, geneticamente, lo so, vorrei dirgli, balzando sul desk di materiale plastico nero e serioso, accavallando le gambe. Sono fiorentino, sestese, italiano, europeo, britannico, sono un po’ tutto, sono le lingue che parlo, i posti che vedo e le persone che conosco. Sono, diciamo, indolatinasiaticheuropeo. Ecco, le basta, agente di dogana?
Sono un’onda, vaga o sicura che sia, che si muove e si abbatte su scogliere di gesso o che scivola lentamente lungo spiagge immense. Sono un’onda mediterranea che diventa atlantica e poi finisce nel pacifico o nell’oceano indiano, dopo un periplo lungo come i secoli ed i millenni della storia della civilizzazione.
Invece, sorrido, dico le solite parole di circostanza, le mie impronte digitali vengono confermate e divento big data, informazione, divento un pezzo del puzzle che qualche analista cerchera’ di interpretare, per capire se ci siano delle informazioni buone, per migliorare servizi utenti o, trivialmente, se io sia un terrorista o se ci siano nel mio profilo elementi che indichino che sia una persona facile da radicalizzare. Sono big data, sono onde elettromagnetiche. E non sono piu’ geografia, carne. Sono un me senza forma, un me espresso come puro desiderio o come emotivita’ psicogeografica. Il luogo dove sono diventa me e, si, sono un essere moderno. Nuovo. Inedito. O vorrei esserlo. Perche’ esiste un limite della nostra esperienza umana che e’ la morte, e quello lo sappiamo. Pero’, esiste un limite piu’ subdolo e’ quello della nostra presenza in un ora ed un dove che chiamiamo geografia. E, per secoli, questo ha delimitato la nostra esperienza del se’. Si doveva viaggiare per fare esperienza del mondo, per impadronisrsi delle tradizioni altrui, magari scriverne libri o riempire pagine di appunti e di foto di popolazioni tribali, immagini di animali strani. Come il Dodo, che divenne conosciuto in Occidente dopo esser stato reso estinto. Il Dodo, primo esempio di geografia resa inutile. Nessuno sarebbe viaggiato a cercarlo, perche’ era scomparso. A parte qualche esemplare impagliato in giro per il pianeta.
La geografia, l’esserci, nel contesto delle nostre vite, con i nostri affetti, le persone a cui vogliamo bene e quel senso di struggimento quando le persone amate non ci sono. Forse perche’ la fisicita’ e la sensualita’ non esimono ancora dall’essere con la persona amata nello stesso posto. Le persone diventano come totem, come oggetti del desiderio localizzati in posti ben precisi. E, forse, e’ quello che ci rende migranti, che ci fa spostare. Ormai tutto accade in maniera dematerializzata, nella rete, ma niente puo’ sostituire l’altro nel momento in cui si rivela a noi nel suo corpo. Onde, vagues, waves. E questo nucleo di carne e desiderio che ci fa spostare lungo le assi del pianeta. Senza, spesso, trovare spazio per quell’onda che siamo, impedendoci di arrivare dove vorremmo.
Dove siamo.
Esiste gia’ un mondo senza geografia, che vive in uno spazio virtuale, la nuvola, The Cloud. Esistono tutti gli elementi di quello che siamo, nella stessa rete. Ogni cosa che facciamo, che compriamo, ogni like o poke su facebook, ogni cosa che desideriamo, viene continuamente scannerizzata, riutilizzata a velocita’ inaudite. Una specie di high frequency trading delle emozioni. Milioni di transazioni in ogni istante, di cuori che si spezzano, di mercanzie che viaggiano prima virtualmente e poi fisicamente nel pianeta. Un mondo senza geografia. Senza limiti e confini. Senza cittadinanza se non quella globale a qualche forma di nazione dell’esserci ora. Una cittadinanza che parte proprio dalle onde di cui siamo fatti, dalla sintonia o dalla distonia che proviamo in ogni istante, che deve avere una radice da qualche parte. Una sintonia con qualche forma primordiale di credo, di rispetto del bello e del giusto. O, semplicemente, un richiamo interno, elettrico, per il quale ogni atomo del nostro corpo deve vibrare alla stessa vibrazione dell’inizio. Un luogo senza geografia, l’universo, prima che si espandesse.
Un luogo senza geografia, la nostra anima, o quella parte dell’anima dell’universo che siamo noi. Come una musica perfetta di un coro di migliaia di persone. Come il coro che canta e il gospel cristallino che descrive un posto dove amore, grazia e fede sono eterne e dove non esistono separazioni, odi o censure. Dalla porta di una chiesa metodista di Fernandina, a nord di Jacksonville in Florida.
Ed una voce solista, ispida, sopra le righe, acuta, che incita a credere nel signore. Jesus. God. Believe in him, urla, quasi. Believe in me, mi verrebbe da rispondergli. Che, come diceva Caproni, senza Io non esiste Dio. Senza quella radiazione di bello che sono tutti gli esseri viventi, che sono tutte le cose, non esisterebbe il bisogno di un credo. Eppure, cantano, urlano, nella Chiesa, mentre fuori minaccia tempesta. Un astante mi invita dentro. Faccio due passi sotto delle colonne bianche. Ascolto una canzone, non so se rapito o sentendomi fuori posto. E riesco, nel vento, dopo aver salutato. E loro cantano, grazia, amore, fede, carita’ e tutto il resto. E potrebbe, dovrebbe il mondo essere cosi’. Senza migliaia di persone che attraversano deserti, mari, oceani, per salvarsi la pelle. Perche’ tutta questa virtualita’ non impedisce che i corpi siano ancora lesi, offesi, seviziati. Non impedisce che il mondo sia ancora diviso dai mille confini della razza, della religione, della politica di parte. E per quello le dittature hanno paura della rete, della liberta’ che nasce dal rendersi conto che le persone ai quattro punti del pianeta vivono le stesse inquietudini e certezze di ogni altra persona. E che esiste una profonda ingiustizia in quella che chiamiamo geografia. Nascere in un distretto sbagliato di New York o di un qualsiasi confine del pianeta ha ripercussioni enormi sulla vita di una persona. Allora, mentre il rullo delle notizie annuncia politiche contro gli immigrati, muri da ergere a difesa di chissa’ quale primato di una razza sulle altre, mi viene da pensare che il giorno in cui non saremo piu’ schiavi della geografia, o sue vittime, sara’ il migliore che potremo vivere.
Sara’ il giorno in cui abbandoneremo anche tutte le pretese associate alla geografia, la nostra forma di rispetto di molte istituzioni senza richiederlo in cambio, perche’ a quel punto la cittadinanza diventera’ non solo un diritto o dovere ma una scelta, un’opzione. Abbandoneremo l’idea che esista una sola via all’assoluto. Gli induisti e i buddisti lo hanno capito da sempre, con forme medie di religioni, aggiunte di divinita’ varie, come nello sviluppo del Tantrismo, una specie di remix di varie tradizioni indiane ma nato dal basso. Lo capirono i Romani, prima di tutto imbracciando il culto di Mitra e poi quello di Cristo. Perche’ religioni adatte a viaggiare, a parlare a istinti o valori comuni delle persone del tempo.
La fine della geografia e della co-locazione delle famiglie, delle persone a cui si vuole bene. Parleremo con tutti tutto il tempo. Ameremo tutti tutto il tempo, ed impareremo ad odiare meno, forse. Forse. Perche’ la fine della geografia non vorra’ dire la fine delle differenze e delle paure, delle gelosie e dei fantasmi di passati difficili da risolvere. Non sara’ la fine delle disuguaglianze, degli odi e dei conflitti.
Allora, tanto vale tenersela stretta quella delimitazione geografica dove possiamo ancora sperimentare democrazia, diritti civili, dove, in media, e’ possibile lottare per un mondo piu’ giusto, pulito e dove possiamo far sentire la nostra voce, dal basso, dall’alto, dai lati. Ecco, teniamocela stretta quella liberta’ di accogliere chi scappa, chi ha bisogno di lavoro e speranza. Teniamocela stretta quella liberta’ dentro la geografia che si chiama Europa. Che si chiama anche Italia. Quando l’Italia parla la lingua che ha insegnato al mondo, quella dei diritti inalienabili delle persone.
Morira’ la geografia, un giorno. E, probabilmente, tutto quel mondo di valori che chiamiamo Europa, diventera’ la prima democrazia orizzontale del pianeta. Quel sogno irreale e difficile settanta anni fa, dopo la guerra, dopo le macerie e dopo tutti gli odi che sono seguiti. Un sogno di definirsi non per dove ci e’ capitato di nascere ma per quello che siamo.
Soundtrack: Orenda Fink – This is a part of something stronger