Hic sunt lupiMatilde

“Facciamo quello che vuoi tu”, le disse Giulio, a testa bassa e con un filo di voce timida. “Qualsiasi cosa deciderai io ti appoggerò”. Rita non se lo aspettava. Credeva che le avrebbe detto di n...

“Facciamo quello che vuoi tu”, le disse Giulio, a testa bassa e con un filo di voce timida.
“Qualsiasi cosa deciderai io ti appoggerò”.
Rita non se lo aspettava. Credeva che le avrebbe detto di no. Un no secco, senza possibilità di replica. Tentennò, ma per poco. Giusto il tempo di riprendere fiato e sbottare: “Non lo voglio”.
L’estate del 1993 era calda, caldissima. Il sole scottava perfino all’ombra dei palazzi della città. Quel luglio di calore e gente per le strade, di negozi nuovi che spuntavano ovunque come fiori su un prato di campagna, sarebbe rimasto nei pensieri di Rita molto a lungo, forse per sempre. E lei lo sapeva.
“Non lo voglio”, ripeté, guardando Giulio dritto negli occhi. Quasi a volergli trafiggere il cuore coi dardi del suo sguardo fiero. “Mio padre fa il fravicatore quando capita, mia mamma pulisce i cessi delle signore del Vomero, e mio fratello è autistico. Lo sai. Che te lo ricordo a fare”, si fermò per un momento, e poi continuò, “Non tengo manco diciassette anni. No. Non lo voglio”.
Giulio raccattò da terrà i fogli che gli erano scivolati dalle mani quando Rita gli era piombata alle spalle mentre usciva dall’aula dell’Ateneo. Lo fece di scatto, nervosamente, più per prendere tempo e stabilire una distanza dallo sguardo di lei che per effettiva necessità. Erano appunti inutili, potevano anche restare per terra ed essere cestinati dall’usciere che li avrebbe trovati. Ma adesso gli serviva raccoglierli per raccogliere i pensieri.
“Sì”, vomitò fuori, “mi informerò e troverò il modo.”
“Vado a casa, chiamami stasera”, concluse Rita, voltando le spalle a quel ragazzo troppo bello e troppo ricco per potersi mischiare con gente come lei. Gente dei Quartieri, gente di una bellezza rustica e abbagliante, gente che non va a scuola ma sfreccia sui motorini truccati urlando e ridendo sguaiatamente, gente che per strada ruggisce volgarità, e a casa bela di dolore a vedere la madre litigare con un padre ubriaco e volgare, o il fratellino nella culla piangere perché nessuno gli ha cambiato il pannolino, perché di pannolini puliti in casa non ce n’è. Gente che sopravvive alle intemperie coprendosi con il cappotto della strafottenza. Strafottenza verso le regole, la civiltà, il quieto vivere, l’educazione, gente che deve necessariamente restare con la stessa gente.
A passo svelto scese lo scalone di pietra lasciando che le sue ballerine di cuoio ticchettassero forte sul pavimento di granito, saltellando mentre i lunghi capelli corvini, raccolti sulla nuca da una pinza a forma di fiore, svolazzavano in una specie di danza lenta, come quella che fanno quando ti immergi sott’acqua, una danza leggera, ipnotica.
Giulio la guardò allontanarsi affacciato alla balaustra interna, e solo quando la vide attraversare l’androne d’entrata si concesse di sospirare. Un sospiro lungo, quasi avesse trattenuto il respiro per tanti minuti, troppi.
Rita salì sul primo autobus diretto a Mergellina. Di tornare a casa non se ne parlava proprio. Doveva piangere e farlo da sola era l’unico modo per non farsi fare domande alle quali, lo sapeva, avrebbe risposto solo con una porta sbattuta in faccia. Il mare era increspato da piccole onde che lo facevano scintillare come fosse ricoperto da brillantini dorati. “Non mi deve pigliare solo perché aspetto un figlio”, si disse mentre la prima lacrima le venne giù dall’occhio sinistro, seguita subito dalla seconda che cadde più pesante da quello destro. Si sedette sul muretto del lungomare con le gambe penzoloni e i piedi che sfioravano gli scogli di sotto. “Mi deve volere perché vuole me, non il guaio che abbiamo combinato. Sì, è così. E poi con cosa lo camperemo a questo? Aiuti dalla sua famiglia, mazzate e sputate in faccia dalla mia? Un figlio deve essere voluto, un figlio non può capitare, non ad una di diciassette anni. Niente affatto”, pensò muovendo le labbra facendole schioccare rumorosamente e pulendosi le lacrime col polso della sua mano piccola pieno di braccialetti di cotone, colorati e sfilacciati. Era la cosa giusta da fare e l’avrebbe fatta.
Pure se Don Giuseppe l’avesse cacciata a calci in culo dal confessionale, o l’avesse maledetta, e lei in chiesa non ci sarebbe tornata più, neppure a Natale, pure se un giorno se ne sarebbe pentita, pure se a scegliere il male minore non ci vuole coraggio ma solo una buona dose di rassegnazione.

Matilde Mancuso: 100/100. Lesse quel voto e sentì il cuore farsi una discesa senza freni nello stomaco. Matilde si era diplomata. Matilde era bella come una modella dei giornali. Alta, magra, capelli ramati e lisci, naso dritto, occhi verdi come il mare di Mergellina nei giorni d’estate. “Mamma, smettila di fissare i quadri come un’ebete, o almeno chiudi la bocca mentre lo fai”, le disse Matilde spingendola col fianco sull’anca, sorridendo.
“Signora Rita Mancuso, signora”, la scosse la voce del professore di greco di Matilde, “complimenti signora, sua figlia è stata bravissima. Pronta, preparata, ci ha fatto fare proprio una bella figura col presidente esterno. Mò fatele fare un poco di vacanza che se la merita”, concluse porgendole la mano. Rita gliela allungò, arricciando il naso. Sua figlia si era diplomata, lei era orgogliosa, lei la poteva mostrare adesso la felicità, senza che nessuno le chiedesse spiegazioni. Il motivo c’era. C’era eccome.
“Andiamo a pigliarci un gelato sul lungomare?”, disse Rita a sua figlia, infilando il suo braccio sotto a quello esile di Matilde. Matilde era cresciuta. Matilde era bella e sana, Matilde era pronta adesso per decidere se diventare pediatra, veterinaria o semplicemente moglie e madre. Matilde si chiamava così perché Rita aveva letto una volta una cosa della Serao che diceva alle donne di essere prima di tutto indipendenti, poi veniva il resto. Le era sembrata una giusta la Serao. E Matilde doveva essere giusta pure lei. Matilde aveva una madre che l’aveva cresciuta da sola facendo l’aiutante di un parrucchiere del Vomero, una madre che le prendeva tanti libri in biblioteca tutti i lunedì. Matilde aveva pochi giocattoli ma tanti sogni, stipati nel monolocale zeppo di cose dove viveva con mamma. Matilde sarebbe stata forte e fiera e coraggiosa come lei, come Rita.
“Mamma, hai visto? Il mare oggi sembra coperto da brillantini dorati.”
L’estate del 2012 era calda, caldissima. Il sole scottava perfino all’ombra dei palazzi della città. Quel luglio di calore e gente per le strade, di negozi su cui spuntavano cartelli “Cedesi” e “Affittasi” al posto di quelli dei saldi, sarebbe rimasto nei pensieri di Rita molto a lungo, forse per sempre. E lei lo sapeva.

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