Ci sono serie belle che si riconoscono subito. Hanno un respiro peculiare, viaggiano su cadenze narrative impattanti, indossano un manto fotografico unico e inebriante. Anche quelle brutte si individuano al primo colpo di telecomando (o click): sono impantanate in una goffaggine scenica che recitazione e scenografia esacerbano al posto di smacchiare; il loro montaggio non è un abbraccio che lega e armonizza storyline composite, ma un raduno dissennato di colori e materiali più consono a un varietà; il comparto musicale è uno spunto melodico ai margini della scena che accentua e rimarca la condanna alla sciatteria che già gli pesa addosso. E poi ci sono le serie ibride: le brutte con qualcosa di bello e le belle con qualcosa di brutto.
“Rise”, ultima creatura di Jason Katims, in onda in primavera sulla NBC americana, si colloca proprio in questa terra di mezzo. La voglia di fare bene, di arrivare al grande pubblico, è evidente. Il marcato naturalismo che nasce dall’incontro della storia di provincia – protagonisti appestati dal morbo di un’adolescenza tutta ciarle e amori che cantano e ballano nella cornice gretta e meschina di uno sputo urbano – con la regia vigile e distaccata che ruba onesti quadretti famigliari all’oblio in cui la tv del sensazionalismo li confina suggerisce un’avanzata decisa verso quella direzione. Ma l’incapacità di nutrire l’accenno ai sogni musicali e farlo fiorire in una concretezza emozionale che vibri sotto la superficie di ogni scena, alimentando nello spettatore una sincera aspettativa da dirottare verso un robusto cliffhanger finale, spegne anche quel poco di buono che si è edificato.
È pesante anche il palese e costante riferimento a “Glee”. “Rise” attua quello che in America viene chiamato “rip-off”: strazia la carcassa di una storia fatta e finita e recupera quello che può per riverniciarlo di vissuti e attanti nuovi. Di “Glee” c’è il quaterback belloccio con la passione segreta per la musica scoperto dal professore amareggiato dalla vita con la voglia di fare arte. Ci sono visi belli e freschi di vita che si incontrano con la promessa dell’amore. C’è la spinta inesausta alla realizzazione creativa, che porta a calcare il palco del liceo e a infuocare le ugole.
“Rise”, nonostante i pregi minuti, è la riconferma al riuso, al rispolvero, al riciclo. Dei piatti sempre più vuoti dei palinsesti ormai non si butta via niente. Un filo di regia, una spolverata di fotografia e gli avanzi marcescenti sono rimessi a nuovo, celebrati come portate originali vestite di sapori inediti.
È l’attestazione, ennesima, di una lontananza siderale da una nuova alba creativa, che schiaffeggi inventive sopite e apparecchi prodotti davvero al passo coi tempi. Lontana, lontanissima sunRise.