Alla manifestazione a Londra svettava un cartello, in un cielo californiano, da film desertico di Antonioni, che diceva “Citizen of Nowhere”. Nowhere is traduce male in Italiano, perche’, in realta’, in inglese e’ una parola che deriva da no e here. Ovvero, un luogo che non e’ qui, non esiste nell’istante. Ma magari esiste domani, o, forse, esiste altrove dentro noi. A me piace pensarlo anche come una unione di now e here. Ora, qui. L’istante, il presente, il vento fra le foglie dei platani di Hyde Park, il sorriso di bambini ed anziani. Di tutte quelle persone che camminano allegre davanti al Cenotafio ed applaudono, che poi si dileguano fra turisti e poliziotti cortesi. Un diluvio di bandiere europee, il, paese che tutti vorremmo, anche se in maniera implicita. Un paese dove diritti e soldi vengono gestiti in maniera oculata, dove i nostri figli possono conoscersi e crescere, un vero posto dove la democrazia ancora puo’ accadere. Now Here o No Here. In qualche maniera, quale sia l’interpretazione, la giornata di sole e sorrisi non passa invano.
Sono cittadino del presente che ancora non si compie. Sono progressista per quello, perche’ non ho interesse che tutto rimanga uguale. Anche perche’ ho due figlie femmine e questo mondo ancora non e’ pronto a permettergli una carriera come ai corrispettivi maschi e, soprattutto, per loro, sembra ancora contare come si debbano vestire. Sono progressista perche’ siamo esseri che si adattano, che si evolvono e che possono cambiare il mondo in due direzioni. La cittadinanza del paese che non esiste ancora mi si addice.
Come si addice a tanti che, in questi mesi o, ormai, anni, di libellismo, luddismo e nepotismo 2.0, si sono accontentati degli angoli del dibattito, degli scampoli delle discussioni, non avendo alcuna ambizione a ‘comandare’ od al potere. Siamo quelle due o tre generazioni che hanno visto il dramma del testosterone e del dirigismo nella politica italiana, americana, europea, quelli che hanno visto in presa diretta corpi morti nelle strade, bombe esplose dietro casa, che hanno visto la corruzione, l’antipatia sociale e il gran collasso della classe media, la fine delle ambizioni, la cultura dell’aiutino, mi dica chi la manda. E tutto questo ci ha spogliato di ogni aspirazione se non fosse quella che arriva per i propri mezzi e le proprie energie. Abbiamo provato a parlare e, da qualche anno, siamo entrati in una forma di spirale del silenzio, dove, come in una citazione di San Gregorio, i saggi smettono di parlare perche’ il mondo e’ talmente pieno di folli che gli stessi folli additano i folli come saggi. Una specie di Carnevale alla Barthieu, dove il potere usa la distrazione, una serie ormai infinita di piu’ o meno buffoni messi al potere. Con la iconografia dell’abito di sartoria, del presidente operaio, capitano, peracottaro, con l’appeal del leader commisurato allo schermo televisivo, che, tanto, dopo il potere un reality, uno spettacolo od un think tank si trova sempre.
Invece, chi poteva parlare ed ha ancora oggi gli argomenti sta zitto. Ma non e’ il silenzio ammutolito di chi ha fatto una cosa sbagliata, che quello sarebbe piu’ adatto per chi si ostina a insegnare ad altri come costruire processi democratici, riformare continenti o monetizzare su condomini di demani pubblici. E’ un silenzio da chi forse sa ancora sognare lungo, da chi sa che da qualche parte le fessure si apriranno e si rivedra’ la luce e tanto vale picconare verso l’alto, sacrificarsi nelle giornate, educare le persone attorno ad evitare i facili entusiasmi, a evitare di rimanere perenni adolescenti, di rimanere fermi, in un paese reale che appartiene al passato. Come se tutti questi ultimi cinquanta anni che, cribbio, se mi appartengono, fossero su un treno diretto contro un muro alla Mordor. La Mordor dell’odio, del populinismo (che in realta’ populismo e’ termine troppo alto, lascia l’illusione che ci sia un popolo da illudere, mentre la retorica della paura e dell’ansieta’ colpisce quelle fasce deboli, indifese, esposte a tutto un mondo di interessi di cui sono prigioniere).
Chi poteva avere idee e energia, chi poteva fare il porta a porta del futuro radioso che ci sarebbe spettato dopo aver digerito il boccone amaro della grande crisi, come sta accadendo in tutto il mondo, ha deciso di aspettare. Non per mancanza di coraggio ma di fiato.
E, stamattina, cittadino del nowhere come sono, ho aperto la pagina della CNN e c’era la notizia della elezione alle primarie di un distretto di New York di Alexandria Ocasio-Cortez. Che, fino a prima del tempo necessario a leggere il suo lungo nome portoricano non sapevo manco chi fosse, aveva stravinto le primarie contro il candidato del partito. Una politica accidentale vera, uscita dal paese del nowhere, dal paese che non esiste perche’ non puo’ esistere mai. Un paese dove tutti siamo ogni giorno piu’ felici, solidali, responsabili e in piena condivisione delle risorse scarse. Un paese immaginato dove le scuole educano, dove gli ospedali accolgono tutti e dove le frontiere sono solo quelle geografiche ma anche su quelle ci stiamo lavorando. Non quel paese reale dei bambini in gabbia, degli immigrati sulle galee corporate, della vilta’ di chi preferisce aspettare un altro giro di potere. ‘Che alla fine questi fanno il tonfo’, #fadireaisuoi. ‘Che tanto vedrai appena devono approvare la finanziaria’ e ‘arrivera’ il generale inverno’.
Invece, la signora Ocasio-Cortez, con lo sguardo killer che le si addice dal cognome (cit. Neil Young), ci dice che ci vuole la politica del coraggio. Quella dell’inaspettato, del non voluto ma necessario impegno, dentro fottuti metri di casa, nelle cose piccole e in quelle grandi. Politics of courage. Non sentivo un’energia simile da quando Obama uso’ Fake Empire dei National per raccontarci di una epidemia enorme di speranza in America. Quell’epidemia del futuro bello, degli unicorni riflessi dentro la retina dei figli, dei colori delle estati gloriose che ci spettano, del lavoro che ci spetta ancora di piu’ e di un mondo che, speriamo, sia comandato presto dai robot, che tanto loro non mangiano e non hanno bisogno di mutui e di soldi per sopravvivere. Che alla fine, forse, la tecnologia ci rendera’ liberi. Di leggere, di raccontarci le storie attorno al focolare, di viaggiare di nuovo come nomadi per vedere albe in 365 posti diversi all’anno. Forse in quello dobbiamo sperare. O, per ora, in decine, centinaia, milioni di Alexandria che esigano di nuovo un futuro che sia non solo loro, ma di tutti gli altri. In un paese che non esiste, perche’ si chiama Mondo.
Congratulazioni, Alexandria Ocasio-Cortez. Congratulazioni, figlie mie che vivrete in tempi incredibili, difficili, ostinati, pieni di problemi ma, anche, pieni di speranza. E di nuove voci a spronare chi si e’ messo zitto. Fino ad oggi.
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C’e’ un musicista inglese che si chiama Frank Turner. Folk rock e un passato da studente con borsa di studio a Eton (era in classe con William). Racconta nei suoi dischi spesso di quel ‘Nowhere Country’ dove abito anche io. Il suo ultimo disco si chiama Be More Kind. Non si tratta di buonismo veltroniano, ma di un inno a riprendersi il lato al sole della strada, di fare un gesto buono al giorno, di riscoprire un mondo non abitato da cowboy ma da esseri umani. Ovunque. Ognuno con un unicorno nell’angolo dell’occhio. Ognuno con un diritto inanielabile alla felicita’.
‘Be more kind, folks. Next time, it could be you’
Soundtrack: Be More Kind, Frank Turner