“Dichiaratamente di parte, ma della parte giusta. E anche Papa Francesco la pensa così”.
Riassunta in un tweet, sarebbe questa la recensione più appropriata per “La verità vincerà”, il libro intervista di Lula, uscito giorni fa in edizione italiana per i tipi Meltemi (www.meltemieditore.it), e che proprio ieri l’ex ministro degli esteri brasiliano Celso Amorim ha consegnato in udienza privata al Papa, che ha espresso preoccupazione per il Brasile e la situazione dell’ex presidente, tutto ciò quando mancano 60 giorni al primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile.
Il libro è un’intervista a tutto campo, rilasciata nel febbraio scorso, in cui l’ex operaio, ex sindacalista, divenuto il presidente del Brasile dei record (il suo doppio mandato si è esteso dal 2003 a tutto il 2010, periodo in cui il subcontinente verde oro, unico paese in occidente, è riuscito a unire democrazia con crescita economica, riduzione delledisuguaglianze e democrazia) racconta la sua traiettoria, la sua visione del mondo, del ruolo della politica, dei movimenti sociali, e del funzionamento di una democrazia in questo scorcio di secolo.
L’intervista si è svolta alla vigilia dell’arresto (avvenuto poi a inizio marzo, dopo la condanna in secondo grado, in aperto contrasto con la Costituzione, che come quella italiana prevede la presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva), al culmine di una caccia mediatico-giudiziaria durata vari anni, nel corso dei quali gli investigatori non sono riusciti a trovare una sola prova materiale della sua presunta colpa. La condanna, alla pena record di 12 anni, è basata su pochi indizi, e sulle dichiarazioni di un pentito, l’imprenditore Leo Pinheiro, che ha visto così ridurre la sua pena da 23 a 3 anni, dopo che la sua prima “confessione”, nella quale non incolpava Lula, non era stata accettata dai giudici. E anche così, la sentenza di condanna non è riuscita a individuare gli atti corruttivi che l’ex presidente avrebbe commesso (accontentandosi di affermare che veniva condannato per “atos de oficio indeterminados”, atti indeterminati), e d’altra lo stesso giudice che ha proceduto contro Lula (l’ormai famoso Sergio Moro) ha riconosciuto che non c’erano i presupposti giuridici perché i fatti, svoltisi a San Paolo, fossero giudicati a Curitiba. Pochi giorni dopo l’arresto, infine, le foto del “favoloso” immobile che gli sarebbe stato dato come tangente, scattate da un gruppo di militanti di sinistra che vi avevano fatto irruzione, rivela al mondo un appartamentino piccolo borghese, senza finiture, con spazi angusti. In un paese dove anche personaggi di secondo piano hanno accumulato fortune in conti offshore, sarebbe questo il prezzo dell’uomo che lasciò al termine del suo secondo mandato con un gradimento dell’80%, vero “padrone” politico del Brasile?
Perché allora, una condanna così severa? La risposta di Lula è semplice (come sottinteso dal sottotitolo del libro, “Il popolo sa perché sono stato condannato”), l’ex presidente è in testa a tutti i sondaggi da oltre un anno, lasciarlo libero di percorrere l’immenso paese, facendo quanto quello in cui è maestro da oltre 40 anni, connettersi con gli strati popolari di cui è ancora oggi l’incarnazione avrebbe significato vanificare il golpe parlamentare del 2016, quando con la deposizione di Dilma (in quel caso per discutibili addebiti di manipolazioni del bilancio statale, in realtà del tutto insussistenti, come riconobbe lo stesso Ministero Pubblico Federale a impeahcment in corso) le destre brasiliane cercarono di porre fine al governo del Partido dos Trabalhadores, che le aveva sconfitte per 4 elezioni consecutive, per avviare una sistematica opera di smantellamento delle conquiste sociali di quell’epoca, tutt’oggi in corso.
Sullo sfondo della vicenda, un paese in cui le classi sociali sono divise da barriere invalicabili, scavalcare le quali mette in moto odi profondi. Le politiche dei governi del Partido dos Trabalhadores hanno avuto questo obiettivo, e hanno raggiunto risultati importanti: 40 milioni di persone uscite dalla miseria e incluse per la prima volta nella società che consuma, studia, viaggia, può sognare un avvenire migliore per sé e i suoi figli. Per fare questo, però, hanno scelto di scendere a patti con il peggio della politica politicante brasiliana, i ras locali delle aree più sottosviluppate del paese, artefici di quel sottosviluppo che governano, passandosi il potere di generazione in generazione, e i modi rapaci di questa classe dirigente, che usa l’ampio settore parastatale (con il colosso petrolifero Petrobras in testa) per finanziare i costi della politica, elevatissimi causa le dimensioni continentali, e non di rado per accumulare fortune personali.
La domanda cui è difficile rispondere, è stato giusto scendere a patti con questo Brasile per realizzare le proprie politiche? Lula non ha dubbi, la sua visione della politica è quella di un riformismo pragmatico, si governa con la situazione di forze esistente, dice a più riprese, e rivendica con orgoglio gli straordinari risultati di inclusione sociale che sono la sua incontestata eredità e per i quali si è già guadagnato un posto nella storia, in una narrazione in cui spicca la centralità nella storia politica brasiliana degli ultimi quarant’anni di quest’uomo dalle origini umilissime, che non gli hanno impedito di trattare da pari a pari con tutti i leader della sua epoca, come ricorda con una narrazione che all’analisi politica unisce il gusto per l’aneddoto e la battuta, spesso espressi con il linguaggio colloquiale che è uno dei suoi marchi di fabbrica.
Ormai ci siamo, entro il 15 agosto vanno presentate le candidature, se la sua fosse rifiutata in base alla “Lei da Ficha Limpa” (una sorta di legge Severino brasiliana, che impedisce di correre a chi è stato condannato da un organo collegiale, come era il TRF-4 che ha confermato la condanna di primo grado) si aprirebbe la strada dei ricorsi, e una vera e propria guerra contro il tempo, in vista del primo turno fissato per il 7 ottobre.
Lula è convinto di esserci, ai blocchi di partenza, e, dopo aver ricordato la fine che è toccata ai presidenti che prima di lui avevano provato a rimuovere le barriere di classe in Brasile (chi morto suicida, chi costretto all’esilio, chi privato dei diritti politici) avvisa i suoi avversari: “non ho la vocazione per fuggire dal Brasile, per uccidermi o per essere vittima di un golpe: se vogliono vincermi devono misurarsi nelle urne”.