Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoL’epitaffio per l’Università: cambiare il reclutamento prima che sia troppo tardi, ora o mai più!

Nell’Università italiana i concorsi universitari sono già (quasi) tutti decisi prima dell’esito. Si sa sempre, in buona sostanza, chi sarà il vincitore. Gli altri candidati, in particolare i più pr...

Nell’Università italiana i concorsi universitari sono già (quasi) tutti decisi prima dell’esito. Si sa sempre, in buona sostanza, chi sarà il vincitore. Gli altri candidati, in particolare i più preparati e titolati, o non partecipano per non creare problemi al predestinato vincitore, oppure se partecipano sanno già che non vinceranno e che dovranno aspettare, buoni e zitti, ognuno il proprio turno.

Se decidi di non piegarti a questa logica, a questa regola non scritta, vigente in tutti gli atenei e in tutti i settori scientifico-disciplinari, finisci per scontrarti con un sistema che non fa sconti a nessuno in termini di ritorsioni. Ti scontri con il sostanziale disprezzo di valutazioni trasparenti e meritocratiche, in certi casi estremi con qualunque forma di onestà professionale e moralità. La regola che vige, nella maggioranza dei casi, purtroppo, è fondata sull’omertà diffusa da parte dei docenti che vedono truccare e alterare gli esiti dei concorsi, e sulla paura di subire ritorsioni nella carriera. Quasi nessuno, infatti, segnala agli organi competenti, in pochissimi denunciano, la maggioranza si volta dall’altra parte. Si utilizzano così bandi pubblici per fare, in pratica, interessi privati, di pochi. In un susseguirsi di scambi e favori reciproci. C’è una fortissima logica corporativa che, in fondo, deriva dalla consuetudine che ha plasmato per decenni l’università italiana, ossia il riconoscimento tra pari maturato sulla base di reciproche concessioni compensatorie rispetto alle chiamate, mentre i reali meriti scientifici non rappresentano altro che il contorno, lo sfondo.

Questo sistema e meccanismo di reclutamento è molto oliato, si è consolidato nel corso dei decenni. Per cogliere il significato devastante di questo sistema occorre una lettura attenta dei processi storici, di carattere culturale, sociologico e, si potrebbe dire, quasi antropologico dell’ambiente universitario e dei suoi, umani troppo umani, protagonisti. Sono gli uomini, cioè i docenti, ad applicare o meno le regole. A questo proposito rimando all’articolo: http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2018/01/11/vi-racconto-il-reclutamento-alluniversita-dalla-nascita-dello-stato-it/26455/ .

Nonostante i problemi siano gli stessi da decenni, nonostante modifiche legislative, presunte riforme, ministri che a parole espongono sempre gli stessi difetti del sistema, nulla cambia perché non esiste alcuna volontà reale di cambiamento, da parte dei diretti protagonisti, ovvero dei docenti, che attraverso questo sistema costruiscono e consolidano le loro posizioni di potere decisionale.

Anche dopo la riforma Gelmini, la nascita dell’Anvur e l’istituzione dell’Asn (Abilitazione scientifica nazionale) che, in teoria, avrebbero dovuto ridurre al minimo termine il potere di arbitrio, un tempo, pressoché assoluto, delle baronie, i membri delle commissioni giudicatrici hanno continuato a comportarsi come dei veri e propri deus ex machina, convinti di poter decidere il bello e il cattivo tempo, imponendo le loro scelte, certi dell’impunità. Utilizzando criteri apparentemente oggettivi, bibliometrici, per veri e propri regolamenti di conti interni alle fazioni e alle scuole accademiche. Si sono, dunque, trasformate da baronie vecchio stampo in moderne tecno-baronie.

La ragione di questa ostinazione, arroganza e perfino testardaggine, è la sicurezza che nell’accademia nessuno avrà mai il coraggio di esprimere un dissenso, di levare una voce di protesta. La quasi certezza dell’impunità o comunque di procedimenti giudiziari (amministrativi e penali) con tempi biblici. E che nessuna classe politica al governo (da destra a sinistra) ha la volontà e la forza di contrapporsi (perché non conviene perdere il consenso politico di questi gruppi di potere), invertendo realmente la rotta. Almeno fino ad oggi è stato così.

Nonostante la retorica da parte dei rappresentanti, a vario livello, dell’università, che tende a parlare di pochi episodi di mala università e di mal costume nei concorsi, di poche “mele marce”, in realtà i docenti sanno benissimo che la gran parte dei concorsi è già deciso in partenza prima dell’esito degli stessi, e molti di loro vi hanno sempre partecipato acconsentendo a contribuire all’esito irregolare, per varie ragioni: scambio di un favore, semplice quieto vivere, mantenimento di una presunta scuola di allievi portati avanti dai maestri. Un altro problema è che spesso i docenti quando pilotano i concorsi lo fanno rispettando, formalmente, le norme che regolano l’università italiana, norme fatte, in buona parte dunque, per fornire applicazione al favoritismo, per rendere in sostanza istituzionalizzata la raccomandazione. La chiamano cooptazione, per usare un termine apparentemente meno disdicevole.

La chiara dimostrazione del fatto che, nonostante le recenti riforme e le modifiche legislative in materia di reclutamento e di università, i risultati per contrastare le pratiche clientelari e baronali nei concorsi siano stati, finora, quasi pari allo zero, è testimoniata dalle tante denunce, su singoli casi (che vanno dai concorsi locali all’Asn), fatte dai colleghi dell’associazione – della quale mi onoro di essere portavoce – http://www.trasparenzaemerito.org/ . Nello statuto della stessa si può leggere che l’associazione vuole “diventare uno strumento di riferimento, ascolto e supporto, per tutti coloro i quali, anche non iscritti, intendano reagire ad episodi di mala università, con particolare riferimento alle procedure di reclutamento, in modo da evitare il loro isolamento”, “offrire, a tutti coloro i quali intendano rivolgersi alle autorità competenti di giustizia amministrativa e penale, consigli qualificati, consapevoli e di esperienza in ordine alle più efficaci e meno dispendiose iniziative da intraprendere”, “rappresentare i più gravi episodi e casi presso tutte le competenti istanze politiche e i mezzi di informazione, spronandoli a voler assumere chiare censure sul piano politico amministrativo e sul piano dell’etica pubblica”, avanzando particolari e precise “proposte di riforma” dell’attuale sistema universitario.

Il numero sempre crescente di ricorsi sui bandi e selezioni irregolari, con sentenze accolte, sta a dimostrare l’entità, molto diffusa e profonda, di questo fenomeno, le cui segnalazioni alla giustizia e denunce pubbliche non sono altro che la punta dell’icerberg.

Insomma, nonostante decenni di riforme tentate e mancate, i concorsi vinti da candidati in alcuni casi senza alcuna qualifica accademica, o comunque con titoli e pubblicazioni inferiori agli altri partecipanti, le promozioni e gli scorrimenti ope legis, gli abusi e le irregolarità a vario livello, con nomine e chiamate fatte al di fuori dei regolamenti, sono rimaste la norma all’ordine del giorno nella vita dei singoli dipartimenti e dei vari atenei.

L’università italiana, oggi più che mai, è una istituzione alla deriva, che ha un livello di gradimento presso l’opinione pubblica davvero bassissimo, e che vanta un livello di scientificità e produttività (se paragonato ai decenni passati) molto minore rispetto agli altri più avanzati paesi europei ed extra-comunitari. Pertanto continuare ad alimentare falsi miti, cercando di spiegare ai cittadini comuni che – sì – ci sono dei problemi negli atenei, ma che fondamentalmente dipendono solo dalla carenza di fondi e che per il resto tutto va bene, come spesso e volentieri sostengono nei pubblici dibattiti molti autorevoli docenti, non permetterà all’accademia e all’università di salvarsi dal sicuro naufragio.

Quale può essere, dunque, un possibile rimedio?

Certo non si può demandare tutto ai controlli dell’Anac o, più incisivamente, alle inchieste della magistratura che agisce solamente su singoli casi specifici di irregolarità, dopo le denunce. Non si può neppure aspettare che siano le inchieste giornalistiche a mettere a nudo le irregolarità del sistema. Ma non si può neppure sperare che sia l’accademia italiana ad autoriformarsi, sulla base di un presunto appello alla moralità e al civismo, che nel corso dei decenni passati sono sempre naufragati miseramente.

Il problema è un altro: occorre arrivare, in seguito alle denunce fatte, a delle sanzioni precise (e consistenti) messe in atto dal ministero o da parte degli atenei stessi, dopo l’esito giudiziario, in modo che qualcuno paghi realmente in termini di carriera, ovvero con sospensioni da commissioni di concorso, con riduzione di stipendi, con sospensione dall’attività didattica, se necessario anche con la perdita del posto di lavoro. Ma si dovrebbe anche agire preventivamente, nei casi in cui siano evidenti e chiari elementi di ingiustizia, irregolarità e sopruso, al di là dell’esito giudiziario dei singoli casi, sul piano dell’etica pubblica. Solo così si potrà creare un meccanismo virtuoso in direzione di un’etica e di una trasparenza fatte a modello.

Indubbiamente un primo elemento decisivo ai fini del cambiamento dei metodi di reclutamento all’università non può che essere il pubblico dibattito: la critica, anche serrata e aspra, la discussione a proposito dei concorsi, del reclutamento opaco, che ponga all’attenzione dell’opinione pubblica gli atti stessi delle commissioni, le valutazioni, i criteri adottati per giungere ad un determinato esito e risultato – da pubblicare on line , senza la necessità di uno specifico accesso agli atti – , non possono far altro che aumentare la trasparenza e quindi la legalità delle procedure. Tutto ciò non dovrebbe, in alcun modo, spaventare i diretti protagonisti, cioè a dire i docenti (che invece si dimostrano sempre scandalizzati dagli articoli di inchiesta o che firmano lettere di protesta contro la nascita di osservatori, sportelli e controlli sui concorsi). Anzi, dovrebbe essere fatto proprio nel loro stesso interesse, nell’interesse della buona università, quella onesta e che fa il proprio lavoro correttamente.

Quello che lascia perplessi, per non dir allibiti, è che le sentenze amministrative e le stesse condanne comminate dalla magistratura ai docenti artefici dei concorsi palesemente irregolari, non provocano alcuna conseguenza significativa per i diretti interessati. Un ateneo può benissimo riuscire ad eludere sentenze definitive non eseguendole (come è accaduto in più di un caso segnalato da Tra-me), e può anche lasciare in carica, se non addirittura promuovere a incarichi più remunerativi e prestigiosi, i diretti interessati nei concorsi irregolari. E’ questa una specie di pretesa di “autodichia”, come se l’università non godesse solo di autonomia, ma anche addirittura, in certi casi estremi, di indipendenza dall’ordinamento e della leggi dello stato: una sorta di far west. E questo è un aspetto a dir poco devastante agli occhi dei comuni cittadini.

L’altro passaggio cruciale è quello del controllo e della prevenzione sui concorsi. E’ vero che gli atenei godono di una autonomia, per legge, ma questa autonomia può valere solamente quando tutte le procedure avvengono nella regolarità e nel rispetto delle norme. In caso di palesi irregolarità e abusi, il ministero deve poter intervenire. Non c’è alcuno scandalo nella creazione di uno sportello di segnalazione su bandi poco trasparenti, non c’è alcuna ingerenza nel momento in cui il ministero manda una ispezione per controllare l’operato di un dipartimento o di un ateneo.

Per entrare più nel merito di alcune proposte specifiche, basterebbero delle semplici modifiche alle procedure di reclutamento delle figure professionali universitarie (in alcuni casi l’una non esclude l’altra, ed è comunque migliorativa del sistema): eliminare qualsiasi forma di chiamata diretta, o cooptazione, preferibilmente istituendo concorsi nazionali; dar vita a commissioni, realmente sorteggiate, a numero variabile e allargato (sulla falsariga del concorso per magistrati) con rappresentanza per ogni sede; dare la possibilità ai vincitori del concorso di scegliere la sede di destinazione, sulla base della effettiva disponibilità di fondi ed esigenza didattica; eliminare le due fasce di professore associato e ordinario, introducendo la figura della docenza unica, predisponendo un sistema di valutazione per le progressioni economiche e di carriera, e cancellare assurde forme di precariato – peraltro che si reiterano nel corso degli anni – come l’assegno di ricerca, la borsa post-dottorato e la figura di ricercatore a tempo determinato. Non si tratta di mettere in discussione la discrezionalità della commissione nelle valutazioni ma una cosa è il giudizio singolo su una pubblicazione da parte dei commissari, una cosa è avere la possibilità discrezionale assoluta, l’arbitrio totale, di poter mettere un minimo e un massimo nei punteggi specifici ad ogni singola voce nella griglia dei criteri di valutazione, a seconda di quello che serve per far vincere tizio o caio, e, per esempio differenziarsi in modo plateale da una commissione di uno stesso settore disciplinare di un’altra tornata o di un altro ateneo. Ecco, questo non dovrà più essere possibile, ci vorranno delle griglie di massima nazionali individuate settore per settore.

Perché, ad esempio, non stabilire la norma che se un candidato al concorso si è laureato o ha conseguito il dottorato di ricerca o si è specializzato in un ateneo, non possa partecipare in quella stessa sede? Inoltre, va rigidamente controllato che non ci siano rapporti diretti tra membri della commissione e candidati e questo va fatto nel momento in cui vengono nominate le commissioni. La legge già prevede che questi rapporti non debbano esserci ma puntualmente la regola è aggirata, nel silenzio-assenso di tutta la comunità accademica. Il membro interno alla facoltà, ovvero il deus ex machina della apparente procedura di valutazione, in realtà già decisa prima dell’esito, deve essere abolito.

Occorre legare il concetto di non trasparenza e mancanza di merito a quello di abbassamento sostanziale del livello e della qualità della ricerca scientifica. E quindi ad un danno economico complessivo per il paese. Si tratta di prevedere, per esempio, la possibilità di diminuire i fondi a quei dipartimenti coinvolti in abusi certificati dalle sentenze.

L’Asn deve essere più automatica e l’arbitrio della commissione ridotto al minimo se non azzerato, i settori devono essere allargati in modo appunto da non penalizzare profili più interdisciplinari e in modo che i commissari del settore non siano sempre i soliti noti, ma ci sia una mescolanza che non può che generare meno possibilità di abusi (lo stesso vale per l’eventuale commissione al concorso locale: più membri saranno in commissione, per esempio 7, più sarà complicato e difficile che avallino certe irregolarità). Inoltre, un commissario che abilita un candidato ad una procedura di abilitazione scientifica nazionale non dovrebbe potersi trovare in una commissione di concorso appena successivo a livello locale, perché ciò va a inficiare il valore stesso della sua valutazione precedente e dimostra invece che era tutto deciso a priori per il posto locale da vincere. Dunque, per un certo periodo di tempo, quel commissario non potrà andare in commissioni locali. Tutti questi aspetti, e molti altri, andranno previsti con una proposta di legge, che sarà articolata dopo un ampio confronto tra l’associazione, gli altri gruppi nel mondo universitario che si sono mossi in direzione di un cambiamento del sistema di reclutamento, e le forze politiche disposte a recepire certe istanze.

Queste sono soltanto alcune delle tante possibili modifiche legislative sul reclutamento universitario. Per far ciò occorre però un elemento imprescindibile dal quale partire: un terreno di azione fondamentalmente disboscato dalle sterpaglie delle logiche baronali e clientelari, residuo e retaggio difficilmente eliminabile senza l’apporto decisivo di nuove leve di studenti e di giovani dottorandi e studiosi disposti a mettersi in gioco, con coraggio e determinazione, per la creazione di una università migliore, ovvero dell’università che vogliamo.

Molti di questi giovani si stanno avvicinando all’associazione Tra-Me, che pare, oggi, una prima risposta concreta, chiara e distintiva proprio nei confronti delle logiche e delle storture del sistema di concorsi universitari fondato sulle baronie. Una proposta che può essere letta come un auspicio ed una speranza in direzione di un reale e concreto cambio di paradigma nell’università italiana. Anche alla luce dell’ascolto e dell’attenzione che il nuovo ministero, e in particolare il Sottosegretario Fioramonti che si occupa di Università, ha dimostrato in più di una occasione nei confronti delle tematiche sollevate dall’associazione. La speranza è che si passi, presto – molto presto -, dalle parole ai fatti.

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