Più Stato e zero mercato! Dopo il drammatico crollo del Ponte Morandi a Genova, il governo ha riaperto l’eterna rivalità tra nazionalizzazioni e liberalizzazioni. Non è il caso di entrare nel merito della dolorosa vicenda. Quanto accaduto fornisce solo l’occasione di tornare sul tema delle liberalizzazioni che in Italia sono di tre tipi: mancate, immaginarie o di facciata. Vi ricordate quando da bambini ci sequestravano il pallone perché facevamo troppi falli? In campo non si andava mai d’accordo. Per forza non c’era un arbitro! Così gli adulti, che ci osservavano da fuori, interrompevano il gioco a modo loro. L’intenzione di Toninelli di revocare le concessioni ad Autostrade per l’Italia non punisce soltanto una squadra per gioco scorretto, ma blocca l’intera partita. Più Stato e zero mercato: la corsa alle liberalizzazioni può terminare qui. Sicuri che nazionalizzare funzioni? Sulla base di quali precedenti lo Stato potrebbe garantire la qualità e l’efficienza di servizio che, a quanto pare, i privati non hanno fatto proprie?
Non mi piace fare fishing for compliments, soprattutto quando ci sono 43 morti di mezzo e una città come Genova annichilita. In questo caso però, Un “l’avevamo detto” da parte nostra ci sta tutto! Quando ho scritto che così le liberalizzazioni non funzionano, un paio di mesi fa, intendevo dire che non basta una legge per la concorrenza per parlare di libero mercato. Non basta una norma rinnovata ogni anno per farci stare in pace con la coscienza. Soprattutto se il testo legge richiede, com’è successo lo scorso anno, ben sette mesi di dibattito parlamentare prima di essere promulgato. Ancor di più se nasce già monco di elementi essenziali, quali una giusta disciplina delle infrastrutture e dei trasporti pubblici. Nel 2017, la legge per il mercato e la concorrenza è entrata in vigore solo a fine agosto. In vista del Def di quest’anno, le istituzioni dovrebbero avere già pronta quella nuova. Così non è. Come spiegava bene qualche giorno fa sul Sole 24Ore Marcello Clarich, ordinario di diritto amministrativo alla Luiss-Guido Carli, la caratteristica dell’annualità di questa norma dovrebbe facilitare la concorrenza. In questo modo lo Stato, l’arbitro che ha portato via il pallone, si occuperebbe costantemente di sfrondare il mercato dalla burocrazia e bloccherebbe sul nascere qualsiasi rischio di monopolio. Peraltro, come ricorda ancora il professore, se si vuole tornare alla gestione pubblica – il punto di partenza sono le infrastrutture, ma è prevedibile che il progetto abbracci anche i servizi pubblici locali – questa legge non avrà più alcun motivo di esistere. Come se il mercato fosse il colpevole. Non soltanto del crollo dei ponti, ma anche di sprechi, inefficienze e scarsa qualità dei servizi.
Questo metodo di bloccare il gioco sequestrando il pallone non nasce oggi. Già nel 2011, i referendum abrogativi avevano determinato una netta battuta d’arresto della concorrenzialità proprio nel momento in cui sembrava che stesse iniziando a crearsi un vero e proprio mercato di società specializzate nella gestione dell’acqua, dei rifiuti e del trasporto pubblico locale. Quel risultato referendario avrebbe dovuto fugarci qualsiasi illusione sul fatto che questo Paese possa riformarsi davvero – prima culturalmente e poi a livello fattuale – a favore del libero mercato. L’elettore aveva detto schiettamente no alle liberalizzazioni. Ahinoi, la concorrenza è un valore di pochi, di una minoranza che crede nell’efficienza non tanto del capitalismo privato, bensì nella bontà di giocare una partita con un arbitro in campo, che detta in maniera obiettiva delle regole chiare e precise. Perché il discorso è semplice: il monopolio ammazza la qualità del servizio offerto, il quale può essere buono oppure no, economicamente sostenibile o meno. Non c’è una terza possibilità. E di un servizio scadente ne paga lo scotto l’utente finale.
A febbraio di quest’anno, l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un paper da cui emerge che l’inefficienza dei servizi pubblici locali è riconducibile alla mancata riforma del settore. Nello specifico: mancata trasparenza, litigiosità presentate ai Tar in un numero esorbitante, scarsa convinzione delle amministrazioni locali a confrontarsi con il mercato. Da qui gli affidamenti in house dei servizi, da parte degli enti locali, passati da situazioni eccezionali a gestione ordinaria. La proposta dell’Ibl è inequivocabile: mercato avanti tutta! Siamo agli antipodi di quello che vuole fare il governo oggi.
Fermo restando che mi trovo più nelle idee autorevoli e calcolate del Bruno Leoni, piuttosto che nelle ritorsioni di pancia post disastro di Genova, il problema sta nelle gare. Ovvero il concetto che dovrebbe fare da cardine della prossima legge sulla concorrenza. Gare contendibili, tra privato e privato, tra pubblico e privato, addirittura – non me ne vogliamo gli amici del Bruno Leoni – tra pubblico e pubblico. È necessaria la presenza di un arbitro, non che ritiri il pallone quando una squadra commette il fallo, bensì che inviti tutti gli operatori economici interessati alla gestione di uno specifico servizio pubblico a partecipare al maggior numero di gare possibili, promosse dall’arbitro stesso e con una frequenza sostenuta. Fare gare, tante e contendibili, significa innescare un meccanismo di miglioramento dell’offerta presentata che, a sua volta, si ripercuote virtuosamente sul miglioramento della qualità del servizio a favore dell’utenza, e con un costo inferiore per la collettività. Questo non è Più mercato e meno Stato. È qualcosa che viene prima: è uno Stato consapevole del suo ruolo di controllore, che a priori evita i monopoli, garantisce efficienza e qualità, ma soprattutto non permette che avvengano disastri come quello di Genova.