Strani giorniCinque consigli al Pd, e alla sinistra tutta, per tornare a essere votabili

Premessa: non sono un politologo. Non farò, dunque, un discorso scientifico su ciò che deve fare un partito per essere vincente in campagna elettorale. Non ne ho le competenze. Ma osservo molto il ...

Premessa: non sono un politologo. Non farò, dunque, un discorso scientifico su ciò che deve fare un partito per essere vincente in campagna elettorale. Non ne ho le competenze. Ma osservo molto il mondo che mi circonda e ho prestato attenzione su alcune cose che si dice la gente. Sia quella parte di società che vede in Salvini e nel “governo del cambiamento” una speranza – e no, non vestono con scarponi e tute mimetiche, non la maggior parte almeno – sia chi valuta quella politica come becera e razzista, nel migliore dei casi. E allora, riordinando un paio di idee, ecco come potrebbe essere il Pd, o un più generico soggetto di centro-sinistra, per apparire votabile ai più.

In primo luogo, fare della lotta alla povertà l’argomento chiave. Per troppo tempo il Pd, che doveva essere un partito di sinistra e che invece è venuto fuori come un soggetto ultraliberista in economia e liberal-conservatore sui temi sociali – per due passi avanti sui diritti civili, se ne è sempre fatto uno poderoso indietro, come è successo per la stepchild adoption giusto per fare un esempio – non se ne è occupato. Il suo ricordo è più legato allo scandalo di Banca Etruria che a misure di sostegno alla popolazione. E gli ottanta euro, che poi non erano nemmeno ottanta, sono stati dati a chi i soldi ce li aveva già. Un partito di sinistra che voglia esser tale, deve tutelare anche gli ultimi. O non è sinistra, ma una sua brutta imitazione. E tra l’originale e la copia, l’elettore sceglie sempre la prima.

Il secondo punto investe la narrazione politica. Un errore strategico – e quindi da evitare – è quello di attaccare il M5S sul reddito di cittadinanza. Perché la società non bada tanto ai distinguo e alle virgole, ma vede le cose in maniera molto più semplice: prima quella misura non c’era, adesso stanno provando a farlo. E contrariamente a quanto detto dai partiti nel passato, la narrazione dominante è che quella promessa verrà mantenuta. I costi, l’Europa, lo spread perdono qualsiasi consistenza di fronte a tale evidenza. Per questa ragione continuare a dire che si vogliono dare i soldi a chi se ne sta sul divano a non fare niente, non solo non è efficace, ma offende chi magari sul divano non ci sta affatto perché va a cercare lavoro: e non lo trova o ne trova uno sottopagato. Renzi non è in grado di capirlo, visto che insiste su questa immagine. Intanto il Pd, nei sondaggi, è ancora fermo al 18-19%. I partiti di governo viaggiano sul 60% dei consensi. Giusto per ricordarlo.

Se bisogna, perciò, riconoscere le ragioni dell’elettorato di Lega e M5S, almeno in quegli ambiti in cui bisogna dar loro ragione, è necessario parlare anche al proprio popolo. E il popolo di sinistra non ha apprezzato tutta una serie di misure che ha reputato, sic et simpliciter, di destra. Rivendicarsi l’operato di Minniti, ad esempio, invece di ammettere che gestire la questione migranti con politiche disumanizzanti – sapete la storia delle torture in Libia, vero? – è stato un errore, è un boomerang. La questione è sia politica, sia di narrazione al tempo stesso. Altri intervenenti dei precedenti governi, come la buona scuola o il jobs act, hanno avuto come effetto quello di inimicarsi l’elettorato tradizionalmente di centro-sinistra: insegnanti, operai, ceto impiegatizio, ecc. Martina, a piazza del Popolo, ha detto di aver capito l’errore. Peccato che non sia ancora ben chiaro a cosa si riferisse.

Va da sé che per fare tutto ciò, ovvero rimodulare l’azione politica e riconoscere i propri errori, bisogna che i principali responsabili di quegli stessi facciano un poderoso passo indietro. E se Renzi e Boschi non hanno la necessaria umiltà per capire che la loro presenza è solo un problema, un partito che si dice ancora di massa e che ha a cuore il futuro del Paese, ha il dovere di ricollocare questi personaggi nell’unico posto in cui possono essere ancora utili: fuori da qualsiasi incarico di dirigenza. E ovviamente non sono gli unici: ricordiamo ancora tutti con affetto il “ciaone” di Carbone, per il referendum sulle trivelle. Saluto che l’elettorato e rimandato al mittente il 4 dicembre del 2016, bocciando fragorosamente non solo un’intera riforma costituzionale, ma l’intero renzismo. L’elenco è e resta lungo, insomma.

Un ulteriore passo, necessario per riappacificarsi con un elettorato che deve andare dalla sinistra radicale alla borghesia progressista – al di là di quei soggetti ultraidentitari che hanno a cuore più il mantenimento dell’ideologia che i problemi reali del Paese – è il riconoscimento più ampio possibile delle istanze degli altri. A cominciare dalla minoranza interna del partito, per arrivare alle soggettività altre presenti nel tessuto sociale. Senza insulti, ma ascoltando bisogni e aspirazioni. Perché quegli insegnanti che si lamentavano della riforma scolastica, non andavano insultati usando il termine “professore” come dispregiativo e sinonimo di fannullone. Idem per quei lavoratori che si opponevano alle “tutele crescenti”, ridotti a gufi rosiconi.

Gli ambiti su cui lavorare, poi, sono molti e molteplici: da una nuova politica per i migranti, da costruire attorno al concetto di integrazione con la nostra cultura, alla risoluzione di quei problemi che rischiano di trasformare la società tutta in plebe da addomesticare – sia perché schiacciata dai bisogni materiali, sia perché sobillata dalle sue paure – e inglobata nel non meglio identificato concetto di “popolo” ridotto a categoria politica di parte. E sugli obiettivi comuni si crea anche l’unità. In quella, può esserci spazio per molti e molte. Altrimenti c’è il “populismo“, appunto. Abbiamo le forze e la cultura necessarie per porre rimedio agli errori fatti. Ci serve solo molto più coraggio, meno cialtronismo e tanta, tanta buona volontà.

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