E’ il bello della diretta, inteso come democrazia. Me lo sono immaginato il sociologo Massimiliano Panarari come seduto in platea, taccuino alla mano, tutto intento a prendere appunti (lo vedi spesso nei talk) e oggi farne uno squisito saggio per i tipi della Marsilio.
Non v’è dubbio che dalle ultime elezioni politiche del 4 marzo il nostro paese è in continuo stato febbrile e la temperatura non intende calare: la vittoria di due partiti con elettorati diversi, poi sommati contra naturam nel governo gialloverde ci ha consegnato una “cosa” inedita per il quadro europeo. E con esso, una comunicazione politica orizzontale e presentista, continuamente in preda al raptus del momento, spesso imprecisa. Il deficit di verticalità nell’affrontare i temi del governare sono evidenti e in qualche occasione imbarazzanti poiìché si basano sul presunto dogma dell’uno-vale-uno il quale – scrive l’autore – si presenta come un distico seducente (persino sexy) e tuttavia – mi permetto di integrare – sembra come il richiamo afrodisiaco di una bella sirena che si rivela in seguito devastante e destabilizzante per tutti.
Dal saggio del bravo Panarari si ricava l’analisi di un tempo apocalittico (rivelatore) che è appena giunto e di cui non conosciamo perfettamente gli esiti.
Di certo sono tornati i miti di un messianismo politico che liscia il pelo al popolo e e parla come il popolo infischiandosene di ogni mediazione a cui dare credito e competenza. E quest’ultima, la competenza (dal latino cum petere, chiedere con) viene bandita ed esiliata con disonore e il tuttologismo sbraga senza freni inibitori. Quel che un tempo sarebbe stato confinato a pura comicità demenziale adesso assurge a dottrina specchio di una storica sottostima della scuola, dell’istruzione e della ricerca che viene da molto lontano e prima ancora del populismo di governo.
Da questa centrifuga di politica, intrattenimento, vita social il neo-populismo ha estratto il succo della nostra inquietudine, il distillato di rabbia, protesta contro il sistema e tanta voglia di cambiamento. Un desiderio che continua però a dividere il paese, con un nord che vota Salvini e un sud che vota Di Maio e che svela le contraddizioni, fa emergere i problemi ma non trova una quadra sul come risolverli. I vincitori di oggi, Salvini e Di Maio, de iure sarebbero alternativi ma uniti de facto sommano due maggioranze relative ed eliminano ogni spazio di costruzione di un’alternativa, almeno fino ad oggi.
Populismi che sommano le narrazioni ma non le soluzioni come se fossimo sempre in un reality: lo si vede dalla storia dell’attuale esecutivo nata come il momento clou di un quiz di Mike (contratto di governo n.1 o n.2, con il forno della lega o col Pd?) e cresce con questa diarchia quotidiana dei vicepremier alla ricerca di un like o di un’ospitata purché si riempia il vuoto con uno spazio. Un lavoro che stenderebbe chiunque abbia un senso del reale e del limite ma che invece foraggia l’ego di chi lo fa senza un minimo cedimento verso l’umano. Su questo potere della dichiarazione multiforme – afferma Panarari – si può vincere alla grande una campagna elettorale (e mantenere il consenso) proprio cambiando radicalmente i significati del lessico della politica e imponendo un’egemonia linguistico-culturale che obbliga gli avversari a inseguire da una posizione di debolezza e subordinazione.
Avevo letto tempo fa sulla manomissione delle parole (Carofiglio) e questo saggio mi conferma sulle conseguenze di un certo modo di comunicare: parafrasando dal siculo A lingua un’avi uossa ma rumpi l’uossa – ovvero che la lingua non ha ossa ma spezza le ossa – il dire della politica di oggi soffoca il ragionare, impone non il ponderare ma l’obbedire e sopratutto ci trascina sempre verso l’aut-aut “o con noi o contro di noi”. Vista così, le stancanti cinquanta sfumature del centrosinistra sembrano pura archeologia ratorica di cui in pochi si ricordano tracce significative. Insomma siamo in un’altra epoca.
Ciò detto, al netto di questi miei pensieri immediati, la lettura del libro di Panarari è rigorosa perché procede per concetti chiave assimilati come “nuovi miti” del presente (Popolo, Autenticità, Tecnologia, Disintermediazione, Democrazia diretta) e che l’autore condensa in un lessico di sopravvivenza contro il logorio del populismo presente e che ci vede governati da un crogiolo di forze che si dichiara anti sistema ma che fa fatica ad essere pro qualcosa. E di certo consegna all’Italia il primato di essere (almeno in ambito europeo) un luogo di sperimentazione politico-sociale. Un libro per capire e forse per difendersi, quindi un vaccino anti banalità mainstream.