Questo post nasce da una riflessione scritta su Facebook, mentre ero in pullman e tornavo a casa al mattino, dopo la notte passata fuori casa. C’era un bel sole, il cielo era terso e il vento ha portato con sé questi pensieri di inizio anno con riflessioni sparse sul tempo che passa. Buona lettura e buon anno nuovo.
Un errore che si fa in terapia, mi ha detto il mio psicologo, è quello di vivere il percorso in senso lineare. Si comincia “il viaggio”, si affronta il dolore e si aspetta “la fine” che dovrebbe portare la guarigione. Ovvero, la ricompensa finale. La nostra terra promessa.
Quando invece i nostri demoni sono sempre lì, a coglierci di sorpresa sul più bello, quando pensavamo di essere a un buon punto nel nostro viaggio verso la liberazione. Questo concetto lineare del tempo, mi ha spiegato, è un’eredità di tipo “cristiano” (da intendersi nella sua accezione confessionale) per cui applichiamo lo schema “peccato originale/nascita → scontare la pena/vita → premio finale/morte” al percorso terapeutico stesso. E, forse, a tutta la nostra esistenza.
Al contrario questo tornare indietro, questo girare attorno allo stesso punto e rifare gli stessi errori (se preferite, in psicologia si parla di coazione a ripetere) ci dovrebbe suggerire un altro modo di percepire il tempo: ovvero nella sua dimensione circolare. Non una linea retta, ma forse più elicoidale che, vista dall’alto, ci dà l’idea di un punto che disegna un cerchio, più o meno perfetto, attorno a un centro fisso.
Che poi, è un po’ quello che succede con la Terra che gira attorno al Sole (ok, non disegna un’orbita circolare, ma vi prego di astrarre) nel suo vagare nel tutto e nulla che è il cosmo. L’esistenza stessa ci suggerisce, in altri termini, come interpretare il tempo, per sentirne meno l’oppressione di fronte al conto alla rovescia depositato nel nostro destino.
Avere, se posso suggerire un’immagine, sempre lo stesso punto di riferimento ma da punti di vista diversi (il centro della nostra vita) e, dalla parte opposta, l’infinito che ci circonda. Una dimensione dell’essere in cui il viaggio intrapreso è il premio stesso, in cui non ci sono svolte repentine o bruschi giri di boa, in cui ogni nuovo inizio è parte di un tutto che è sempre nuovo, perché porta con sé il seme divino della propria unicità. Seme da contrapporre ad ogni sorta di peccato originale, padre di tutti i sensi di colpa.
Quando si aspetta la fine dell’anno, con la tv accesa che segna l’ultimo minuto e lo spumante in mano, cerchiamo di lasciarci alle spalle qualcosa, celebriamo un rito di passaggio, una differenza tra un prima e un dopo che, però, sta tutto nella nostra illusione. Dovremmo capire che in verità ogni cosa che viviamo farà parte di noi nel bene e nel male. E farà parte di noi per sempre. Ed è il senso che diamo alle cose, alla vita, a quel saper avere il nostro centro lì ben saldo, nella diversità dei singoli punti di vista, e l’infinito tutto intorno, che fa la differenza tra ciò che siamo e ciò che ci suggeriscono o ci impongono di dover essere. Non una macchia di inchiostro in un segmento sempre uguale a se stesso, ma un corpo (celeste?) che ha innumerevoli prospettive in una dimensione molto più complessa.
Poi va benissimo festeggiare la fine e l’inizio, onorare simboli e celebrare rituali, perché fanno parte di noi e tutto ciò che viviamo siamo noi. Ma dovremmo imparare a celebrarne la continuità, prima ancora che le cesure. Nella sua mutevolezza, che a ben vedere è il nostro marchio di fabbrica. Che ci regala il divenire, la facoltà di accogliere l’altro da sé, il caso e l’imprevisto, il dolore e la speranza in quell’eterno presente che siamo chiamati ad abitare e che poi è la nostra vita.
E così, il mio augurio per questo anno che verrà (ma che è sempre stato qui, se avete colto lo spirito delle mie parole) è quello di avere ben salde le innumerevoli prospettive attorno al centro della vostra (della nostra) autenticità in mezzo all’infinito che ci circonda e in cui siamo immersi e immerse, perché altrimenti non potrebbe essere. Perché altrimenti non potremmo essere. Buon anno, ogni giorno. E buon sempre, anche se non è eterno. Ma è di certo mutevole.