Il vento improvviso allontana le nebbie e le nuvole basse. Inclusa la pioggerella fastidiosa. Inclusa la smania dell’autunno ancora incerto se diventare inverno. Arriverà il freddo, torneranno i turisti dai luoghi caldi, con foto ricordo e reportage di mondi diversi, assolati, caldi e socievoli. Così ci racconteranno, nelle stanze dell’ufficio, al bar o nelle riunioni condominiali.
Intanto, il vento ha spazzato via una stagione mediocre di nuvolaglie che mai sarebbero diventate tempesta. Ci prepariamo al nuovo anno, nel frammezzo di Italia che si stende addosso agli Appennini, l’Italia che diventa un ponte fra montagne altissime e un mare blu e scuro. Mari e frontiere naturali. Strade. Innumerevoli e immanenti. Strade che hanno portato ogni forma di pellegrino, mere o viandante attraverso il paese, spesso verso Roma. Spesso truppe, manipoli, mercenari. Manigoldi, popolani, populisti. Contadini, signori. Strade consumate dai carri, dai ferri dei cavalli o dall’usura delle gomme di milioni di camion e macchine.
Il vento corre, scuote i noci, i mandorli, gli alberi dei cachi che ancora resistono appesi ai rami. E diventa un refolo insistente, mentre riappaiono le stelle, molto più di cinque, forse molto piu’ delle seimila stelle osservabili ad occhio nudo. O, forse, sono gli occhi resi lucidi dalle folate e l’effetto albedo, il tintinnare degli oggetti appesi alle porte di casa.
Il vento spazza tutto tranne l’incertezza. Di tempi nuovi, nuovissimi, ancora da scartare, come un regalo che si indugia ad aprire perche’ la scatola sembra danneggiata o che contenga la solita sciarpa od ombrello. O niente, se non un biglietto di sola andata per un futuro che assomiglia sempre di piu’ ad un passato neanche troppo remoto. Un medioevo che si insinua nelle forme, nelle parole, nelle discussioni, nelle paure di altri, di stranieri e di lanzichenecchi possibili.
L’incertezza diventa timore, paura. Di adeguarsi alle nuove regole, algoritmiche, della vita moderna. Dove tutto viene tramutato in pensiero binario. Qui o li, fuori o dentro, bianco e nero. Le grandi divisioni della societa’ post-digitale, del mondo dove tutto sembra destinato alla predestinazione dei ruoli, del politico che non riesce a capire l’economista e l’economista che non riesce a spiegarsi al popolo. E il popolo che crede sempre di piu’ agli stregoni, a chi promette tutto subito, a chi dice di capire il futuro, avendone solo presente il lato distopico. Travestito da utopia.
Intanto, il vento continua a muovere fronde e cartelli di autonoleggi e officine. Il vento si insinua, fa credere al cambiamento. Nella luce incerta della illuminazione pubblica, una persona passa quasi di corsa, il peso proiettato in avanti. Come se fendesse l’aria. Ha un cappello di lana. Un cappotto pesante e gambe leggere, che si muovono a qualche forma di ritmo interno. A vederlo da qui, da dietro i vetri della finestra, c’e’ un uomo che sfida le sferzate di vento, taglienti e fredde. Mentre lui ha tutto un suo mondo di attesa, direzione, decisione che gli permette di mantenere la barra dritta verso l’obiettivo. Nonostante il vento o, forse, leggermente aiutato. Perche’, alla fine, solo chi non ha una direzione dentro teme il cambiamento.
Nel Duomo di Cremona, attorno al 1520, Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, dipinse una crocifissione sopra la porta d’ingresso, come parte di un ciclo pittorico dedicato al supplizio di Cristo. Un affresco appena restaurato e che trasmette, in una scena caotica, tutto il senso di quel momento nel quale il ‘bene’ ed ‘il male’ erano modernamente riconducibili all’essere umani o inumani. A mantenere la propria natura benigna o tradirla. Il Pordenone decise di dipingere di fronte alla scena un soldato lanzichenecco, armato di tutti i denti, con una spada enorme e una barba e capelli rossi folti. Ti guarda, il lanzichenecco, ed indica la croce dietro di lui, dove una crepa nel suolo divide buoni e cattivi, la storia della salvezza da quella della dannazione. Il lanzichenecco e’ altro da quella scena, come se fosse un arbitro, come se fosse un giudice divino, in quel momento storico nel quale si preparava il Sacco di Roma, e nel quale i particolarismi delle corti italiane, le beghe interne, ci avrebbero condannati a duecento anni di divisioni. Il Lanzichenecco osserva le persone sotto, come se le arringasse. Un ‘nemico’ di tutti, come erano percepiti i mercenari del Nord Europa, che indica Cristo. Che indica l’umano che ci tocca tutti, che ci tocca come nelle scene dietro al soldato di violenza e sopraffazione. L’Italia del Pordenone e’ come quella di questi anni qui, dove, per portar acqua o vento al proprio mulino, ci si scorda di quella grande possibilita’ di umano e di futuri possibili possiamo essere, seppur diversi, seppur in transizione, in cambiamento, forzato o no. E la crepa sotto i nostri piedi si apre sempre di piu’.
Tanto vale continuare a camminare nella tempesta che, anche nel dipinto del Pordenone, si avventa sul Cristo e i due ladroni. Che, alla fine, si arriva soli e senza niente e si torna da dove siamo venuti soli e senza niente. Come tante delle persone che in questi giorni navigano su barche incerte sul Mediterraneo o si nascondono nei nostri androni.
Soundtrack: Kaiser Chiefs – Start with nothing