Prima è stato il turno di Google con il sistema di gestione interna aziendale GSuite, sitema che permette alle aziende di configurare il proprio dominio dopo la @ negli indirizzi mail, che organizza il calendario, i task e i documenti condivisi di un intero team di lavoro. In effetti, a partire da questo lancio, sono state moltissime le aziende che hanno contratto il servizio a discapito dei servizi precedenti, i motivi? Facile immaginarlo: l’assoluta e indiscussa qualità di qualsiasi servizio Google rilasciato, la competitività sui prezzi in rapporto al valore costo/beneficio, la semplicità di uso e configurazione nonché lo strapotere commerciale delle grandi corporation della silicon valley.
Adesso tocca ad Amazon con il suo servizio che potremmo definire di “interscambio tra le aziende”. Amazon business, appunto, diretto e senza troppi giri di parole. In pratica un’azienda che voglia seriamente adoperarsi a commercializzare un prodotto online può non farlo tramite un proprio magazzino e una propria rete di contatti (costruita verosimilmente in anni) ma appoggiandosi alla piattaforma di Amazon di cui sopra che permette oltre al contatto tra imprenditori il delivery e lo stoccaggio, e dunque tutta l’infrastruttura che un’attività di compravendita su internet avrebbe previsto partendo da zero.
Il punto su cui mi soffermo particolarmente è questo: in che modo le aziende multinazionali, già leader del proprio mercato di riferimento (Amazon e Google sono padroni del web mondiale in pratica) vogliono attrarre questa fetta di mercato fino a pochi anni fa inesplorata e lasciata “in balia” di altri colossi più focalizzati (vedi Salesforce)?
Ne ho parlato più volte con cultori di materia, amici, colleghi e ognuno pare avere il suo punto di vista, del tutto differente, del tutto indipendente. Emanuele Perini, ad esempio, sul suo blog personale, tratta ampiamente l’argomento Amazon Business e lo fa con un occhio non troppo opinionistico, limitandosi a descrivere come funziona Amazon Business e fornendo spunti di riflessione non invadenti, non assegnando valore assoluto alle proprie affermazioni e punti di vista. Oltretutto, internet è pieno di pareri spesso contrastanti con la realtà dei fatti: ossia che le aziende in questione lanciano questi prodotti non di certo per fallire, i risultati sono evidenti, i contraenti sempre in aumento e il fatturato (nonché i profitti) sempre crescenti.
Esiste una teoria, ampiamente spiegata in questo articolo, secondo cui in clienti debbano essere catalogati per “specie animali”: a partire dai microorganismi fino alle balene. Ognuna di queste categorie apporta un certo lifetime-value, ossia un certo contributo economico all’azienda:
- indiretto per gli utenti più piccoli (come gli utenti di instagram), tramite la vendita di spazi pubblicitari a terzi per cui il prodotto venduto siano effettivamente gli utenti e le loro visualizzazioni
- diretto per gli utenti più grandi (come le aziende che hanno gestionali costruiti ad hoc), tramite il pagamento di abbonamenti e funzioni enterprise
Se leggete l’articolo in questione potete agilmente fare caso (quantomeno farvi un’idea) di quale sia il vostro range di riferimento a cui ambire per “costruire la vostra azienda da 100 milioni all’anno”. Scherzi a parte, leggendo il pezzo viene facile intuire quale possa essere il vantaggio delle corporation abbracciare differenti segmenti di pubblico: quando un Google o un Amazon abbiano saturato il proprio mercato di riferimento, relativo a un solo customer type, va da sé che l’unico modo per ampliare il bacino di utenti sia quello di scalare verso altri segmenti.
Insomma, nel giro di pochi anni ci sarà da aspettarsi che una big company faccia terra bruciata attorno a sé per tutti i servizi affini al business, per clienti piccoli e clienti grandi, lasciando, di fatto, inermi i piccoli player che ambivano a tipologie di utenti finora inesplorati.