“Io ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi”. Le ho viste in Cina, dove si addensano le nebbie dei luoghi comuni e dei pregiudizi. C’è infatti chi ha paura del Celeste Impero e per questo alza anacronistiche barriere daziarie. E c’è poi chi cerca di screditarne l’immagine, come di una giovane potenza industriale, priva di scrupoli in fatto di politiche ambientali. Ebbene in Cina io ho visto cose in grado di ribaltare qualsiasi teoria fondata sulla paura.
È ormai tradizione per Anav organizzare in questa stagione una missione conoscitiva di come funzionino i trasporti in altri Paesi. Già in passato ho scritto delle trasferte in Russia e Messico: realtà economiche del tutto diverse tra loro e dove autobus, treni e servizi pubblici in generale sono gestiti in modo altrettanto differente. Quest’anno è stata la volta della Cina, appunto.
Le convinzioni a priori erano tante. Non esclusivamente sul nostro settore. Tuttavia, si sa: si parla di Cina e vengono fuori i classici luoghi comuni. Il gigante asiatico che è cresciuto troppo. La nazione più popolosa del mondo, che con la fallimentare politica del figlio unico adesso non sa come gestire una società sempre più anziana. Un colosso del capitalismo che non si sa come contraddittoriamente possa convivere con il sistema del partito unico, ancora figlio di Mao. Tutto vero. I luoghi comuni hanno sempre una giustezza di facciata. D’altra parte, il viaggio – e questo è merito di Anav – ti fa aprire gli occhi.
Partiamo quindi dalle cose che non si sanno. Tra dicembre 2016 e gennaio 2017, in solo un mese, in Cina si sono costruiti più chilometri di metropolitana che in tutta la storia italiana (oltre 200 km). Questa marcia forzata si è dimostrata un passaggio obbligato. Quando hai città come Shenzhen, passata da 20mila a oltre 13 milioni di abitanti in poco più di trent’anni, la velocità di reazione della pubblica amministrazione dev’essere coerente con l’aumento demografico. Ne va della qualità della vita, dello sviluppo economico e del consenso da parte dello Stato. Se non garantisci un pubblico servizio come si deve A) la nazione non cresce; B) la società comincia a mettere in discussione quel sistema istituzionale che tu stai, a tutti costi, cercando di far sopravvivere.
Sempre a Shenzhen, tutta la flotta di 16 mila bus è stata resa elettrica. Questo vuol dire investimenti in nuove tecnologie, sensibilità ambientale e vision di lungo periodo in fatto di trasformazione di un settore tradizionalmente statico in termini occupazionali. Mezzi elettrici implicano infatti nuovi sistemi di guida e manutenzione, ergo formazione e aggiornamento costante del personale di servizio. A Chengdu (14 milioni di anime), il quarto nucleo urbano del Paese, il sistema di controllo installato su ogni mezzo permette di calcolare in tempo reale quanti passeggeri salgono e quanti scendono a ogni fermata. Questi sono dati. Ovvero informazioni sulle quali il gestore può implementare la qualità del servizio e renderlo anche più efficiente. Straordinario, a sua volta, il terminal Liuliqiao, il primo delle 20 stazioni di autobus a lunga percorrenza presenti a Pechino e dove, nel 2018, sono transitati 2,3 milioni di passeggeri. L’hub sorge su 66 mila metri quadri, conta 66 stalli di fermata, accoglie 117 operatori con 156 linee che collegano più di 198 località; la tratta più lunga è di oltre 2mila chilometri. Ordini di grandezze. L’immensità della Cina non è un ostacolo. Poi ci sono i grandi operatori che stanno scommettendo sulla guida autonoma. E qui, per chi è pratico di Tpl made in Italy, andiamo oltre i confini dell’immaginazione. Perché mentre a casa nostra l’M5 di Milano vien vista ancora come un miracolo, in Estremo Oriente la guida autonoma è la normalità.
Ma la Cina, si sa, è lontana. Non vicina come si diceva poco tempo fa per versare benzina sui timori del suo sorpasso. La Cina è lontana ed è davanti a noi di non poche lunghezze. Non solo in fatto di numeri, bensì di cultura e di approccio al futuro. E questa è la cosa peggiore.
In un’Italia i cui numeri ci permetterebbero di fare cose esemplari, sviluppare modelli di Tpl da esportare nel mondo – in contesti più piccoli è più facile fare le cose – ci areniamo a osservare a bocca aperta i mezzi dell’Atac che vanno a fuoco, le gare fatte per gli amici degli amici, oppure cancellate con un tratto di penna. Restiamo perplessi di fronte alle proposte di liberalizzazione del comparto, come se ci fosse ancora qualche dubbio cui benefici della concorrenza. La Cina non è il Paese di Adam Smith. Come altrettanto non lo sono Russia e Messico. Eppure, da quelle parte una certa sensibilità alla libertà d’impresa l’hanno dimostrata. Chissà perché noi no.
Tempo fa, a una nostra assemblea, avevamo invitato un marziano, per mostrargli le falle del Tpl in Italia. Avevamo ipotizzato la sorpresa di chi, giunto da un altro pianeta ed entusiasta di ammirare le bellezze delle nostre città, non riuscisse a muoversi comodamente con un qualsiasi mezzo pubblico. Avevamo immaginato la delusione e lo sconforto di questo visitatore, venuto da lontano, a vivere qualunque genere di intoppo. Ritardi, scioperi, corse cancellate, tratte modificate, scarsità di informazioni. Luoghi comuni, anch’essi, si potrebbe obiettare. Ma altrettanto fondati come quelli che riguardano la Cina. La sola differenza è che questi non so proprio come confutarli. Col senno di poi infatti, mi vien da pensare che, invece di un extra terrestre, sarebbe bastato chiamare un cinese. Per lasciarlo allibito di fronte al disastro Tpl made in Italy.