In un suo pregevole studio sugli arabismi, Roberto Sottile – docente dell’università di Palermo e linguista – ci racconta, tra le molte, la storia di una parola: l’albicocca. Lo studioso ci ricorda che il nome latino di questo frutto era PRAECOQUUM, ovvero “precoce”. La pianta infatti, importata dall’oriente, fioriva e fruttava prima, rispetto alla pesca a cui somigliava. Gli antichi romani, entrando il contatto con il Maghreb, importarono il termine che venne adattato nella lingua locale in barqūq.
I popoli, nel frattempo, seguirono la loro storia. Guerre e commerci, migrazioni e invasioni (non sono sinonimi, sia ben chiaro), contatti pacifici e incroci fortuiti. La storia dell’umanità è fatta di tutti questi elementi. Gli arabi conquistarono la Sicilia e resero il favore alla nostra civiltà – che per un lasso di tempo importante fu anche la loro – restituendoci la parola che i nostri antenati gli avevano lasciato in dono: da barqūq il dialetto siciliano (un tempo “lingua”) adotta il termine varcocu. Ma il termine arabo non viaggia solo per quella sponda del Mediterraneo.
Il termine arabo si incontrò con la cultura aragonese che lo adottò a sua volta: in lingua catalana divenne abercoc, poi trapiantato in Francia con l’esito abricot. Infine arriva in Italia, che diventa “albicocca”. Ma questo viaggio non finisce qui. Se una parola era partita, trasformandosi e divenendo patrimonio comune di culture così diverse – che si riconoscevano, eppure, in quel sapore dolce e vellutato – un’altra era rimasta a casa sua, aspettando la sorella (o l’amante fuggita altrove?) e il suo ritorno.
Il termine latino PRAECOQUUM in Sicilia si era evoluto in pircocu – altrove, con un fenomeno di metatesi (una specie di anagramma spontaneo) abbiamo cricopu – e così nella nostra isola il termine arabo e il termine latino, poi divenuto siciliano, convivono pacificamente. Termini e storie così diverse, eppure strettamente legate da un destino comune, si rifanno alla stessa cosa, allo stesso “soggetto di esistenza”. Un po’ come gli esseri umani, a ben vedere. Che siano arabi, italiani o di altra nazionalità, lingua o fede, parliamo sempre di persone. Nonostante le storie diverse che possono nascondersi dietro a quei termini, apparentemente così distanti.
Ho fatto questo lungo preambolo, che apparentemente poco c’entra con quanto voglio dire, perché ieri Salvini è stato in Sicilia. A Catania e a Siracusa. E in quelle due città – ma non solo – è stato pesantemente contestato. Non perché la gente sia stata incivile, considerando anche il fatto che protestare contro il potere è un diritto ed è il sale di qualsiasi democrazia degna di questo nome. Dico “pesantemente” perché la gente che ieri è scesa in piazza, rischiando le cariche della polizia, ha dato una spallata alla retorica salviniana di un consenso pressoché unanime e assoluto. Quelle due piazze, insomma, ci dicono che non è così. E non è l’unica lezione che ci danno. C’è ben dell’altro.
Le giuste e doverose contestazioni di Catania e Siracusa ci ricordando, infatti, che una Sicilia leghista non può e non deve esistere. Sarebbe una Sicilia che tradisce la sua storia di accoglienza e la sua identità di terra di frontiera. Abbiamo bisogno di orizzonti aperti e non di confini che rinchiudono. Men che mai di porti chiusi. Abbiamo bisogno di umanità che dialoga e che confligge, se necessario, ma nell’ottica del riconoscimento reciproco, non dei falsi miti del “decoro” e della “sicurezza”. Salvini è “clandestino” in un contesto come il nostro. Ce lo insegna la nostra storia. Ce lo insegnano le nostre parole. Tutte. E non può essere altrimenti.
P.S.: lo studio a cui si fa menzione è “Arabismi in ambito agricolo e alimentare in Sicilia e nel Mediterraneo” di Roberto Sottile; in Antonio C. Vitti, Anthony Julian Tamburi (a cura di), The Mediterranean. Dreamed and Lived by Insiders and Outsiders, Bordighera Press, 2017, New York, pp. 169-185.