Michael Flindt
(1923- febbraio 2011)
Medico e ricercatore inglese di 87 anni. Attivo e poi onorato soprattutto a Manchester (università e ospedali).
Alla medicina capita ogni tanto di entrare nella letteratura con dei personaggi, dei dottori, dai quali il mondo si sente protetto anche se non sono veri: il dottor Kildare della celebre corsia televisiva, o il dottor Manson della Cittadella, il romanzo del medico scozzese Archibald Joseph Cronin che faceva molto piangere (anche nell’interpretazione di Alberto Lupo per lo sceneggiato televisivo Rai del 1964). Succede poi che la letteratura medica abbia i suoi titoli. Uno di questi, fra i tantissimi, si chiama «medicina del lavoro».
Da quando era molto giovane – studente alla Bryanston School nel Dorset e praticante medico al St.Thomas Hospital di Londra – il dottor Flindt (bel nome, un suono da pioniere) ha afferrato le molte cose che lo facevano star bene, ma non da soddisfatto egoista. Anzi, piazzando al centro della sua vita un’indagine costante su altre cose, molto precise, che facevano stare malissimo altre persone, a milioni.
Milioni di vittime (intossicati, poi malati, a volte morti) dell’era industriale e postindustriale e di padroni del vapore che in genere si fanno un baffo di quello che i loro lavoratori maneggiano o inalano nell’impilarsi di giornate, anni, decenni, di produzione. La salute e la tenuta fino all’anticamera dei novant’anni del dottor Flindt, contraddicevano in parte Winston Churchill che aveva risposto con un «no sports» a chi gli chiedeva il consuntivo di tanta vitalità, anche nella sua inoltratissima età.
Condividendo con Churchill la gioia e il relax nella pittura, Flindt godeva, invece, di almeno tre sport, tutti di stile nazionale: golf, squash, tennis. Mentre la salute di tutti quelli e quelle che lui curava era stata danneggiata in modo insinuante da due mali: la silicosi e una forma specifica di asma causata dagli enzimi presenti nei detergenti biologici.
La silicosi – conosciuta soprattutto nel rovinare i polmoni e la vita ai minatori – ha i caratteri di una torturatrice mascherata che si concede tutto il tempo necessario: il suo agente (il biossido di silicio inspirato meccanicamente dalle polveri che lo contengono in percentuali venefiche) può starsene buono, latente, fino al momento in cui la vittima si ritrova con un’enfisema polmonare o con una calcificazione di determinati linfonodi. La fregatura finale può arrivare perché non si respira più, o per uno scompenso cardiaco.
I detergenti biologici, tutta la fila orgogliosa dei solventi, rimandano anche all’economia domestica: il danno asmatico viaggia attraverso la scena di chi lavora, all’origine, in fabbrica, quegli enzimi, e plana sull’ansia igienica di tutte le casalinghe e i casalinghi che puliscono e ripuliscono regolarmente ogni anfratto dei propri habitat. Su questi cuori di tenebra della medicina e delle malattie del lavoro, Michael Flindt è stato un interpellato di prima fila mondiale: consulenze, conferenze, interventi, studi, articoli, negli Stati Uniti, in Venezuela, nell’Oriente asiatico. Come in un racconto immaginabile di Louis Bromfield o di William Somerset Maugham, è anche finito nel Borneo, per tre anni (medico interno di una compagnia petrolifera), dove riusciva a organizzare, da solo, un ospedale con cento posti letto e una quantità imprevista di pazienti esterni.
Quel “tipo” di scienziato inglese di una volta amava star bene anche con la musica e suonava uno strumento in orchestre di amatori. Quel surplus di salute, nel caso e nella vita del buon dottor Flindt, fu sempre il clarinetto.
Annie Girardot
(25 ottobre 1931- 28 febbraio 2011)
Attrice e Marianna francese. Avrebbe compiuto 80 anni nel prossimo autunno.
È morta a Parigi (dove era nata) all’ospedale pubblico Lariboisière, nel decimo arrondissement, sulla riva destra della Senna. Un ospedale creato a metà dell’Ottocento, dopo un’epidemia di colera, con l’intenzione di fare un’opera filantropica e di progresso sociale. L’anno scorso, la sua unica figlia, Giulia Salvatori, aveva dichiarato pubblicamente che la madre, colpita da anni dall’Alzheimer, non aveva ormai più nessuna memoria di essere stata un’attrice. La morte è stata annunciata ai media dalla nipote Lola Vogel, anche lei interprete cinematografica.
Con un riflesso difficilmente condizionabile, i francesi usano chiamare «Marianne», o «grande dame» di qualcosa (cinema, lettere, arte, moda), tutte le donne francesi belle, o intelligenti, o comunque di primo piano nel rappresentare il Paese. Marianne è la Francia, la rivoluzionaria istituzionale dei timbri, dei francobolli, delle statue municipali (una delle ultime Marianne, per definizione un po’ a orologeria, è stata Laetitia Casta, l’opalescente mannequin corso-normanna).
Anche ad Annie Girardot sono toccati, col massimo di un rimpianto diffuso, quei due stemmi, ma le assomigliavano poco. Con un nome gentile, normale, non marmoreo (Annie), e una bellezza immediatamente socievole, lei si piazzava in un set tutto suo, quasi extrapatriottico. Il gruppo delle altre francesi del cinema, coi loro quattro quarti di fama e spesso anche di bravura, si chiama in altri modi, storici, romanzeschi, o da can-can: Catherine (Deneuve), Isabelle (Huppert), Fanny (Ardant). E, in fondo, solo la più unica e la più strana di tutte, col suo nome e cognome da cronaca languida – Jeanne Moreau – e la sua voce da arte intrecciata nella vita e da sigaretta costante, resta, a 83 anni, una sorella molto grande e molto parigina di Annie.
Il tipo fisico e caratteriale, oltre che cinematografico, di Annie si è variato nel tempo e nei ruoli, nelle parti (40 film solo nel decennio 1960-70) ma senza mai imbrogliarsi su una chiarezza d’origine: quella faccia da buon ritratto d’arte contemporanea, quei capelli corti, quelle rughe arrivate abbastanza presto, quel parlare di amori, lacerazioni, società e valori dentro gli anelli di fumo di molte sigarette, erano incrociati in un carattere e in un’interpretazione veri, e in un clima d’epoca. Dove, sostanzialmente, si viveva per vivere. E così, se in Vivre pour vivre (1967) di Claude Lelouch, Annie è la moglie innamorata e alla fine lasciata da un tormentato Yves Montand-reporter di guerra in Vietnam (canonici sensi di colpa maritali risolti con la fuga definitiva con una bionda, che nel film è Candice Bergen), nella tragedia reale (un caso che aveva sconvolto la Francia) di Mourir d’aimer (1971) di André Cayatte, lei è Danièle Guénot, l’insegnante di 32 anni di Rouen che si era suicidata dopo aver avuto un amore totale con un suo allievo di 17 anni, e dopo aver passato, per questo, un anno di galera. Oltre dieci anni prima, nel 1960, era stata Nadia, la prostituta uccisa all’Idroscalo milanese dal suo amante Simone (il maschilissimo Renato Salvatori), in Rocco e i suoi fratelli di Visconti.
In un lungo e ben fatto documentario su France 2, il giorno dopo la sua morte, Annie è stata citata anche per la sua totale mancanza di «senso del denaro» e per la sua attitudine ad «amare gli uomini più nei loro difetti che nelle loro qualità». Renato Salvatori in testa, suo marito, versiliese di Seravezza, maschio italiano e popolare e buon attore in quel genere, separato-non separabile da lei, geloso, e che ritornava per riscomparire. Fino alla sua morte, nel 1988, a 55 anni.
Guardandola, e sentendola in quella trasmissione (anche quando, nel pezzo di un celebre e straziante video, parlava della sua malattia e della «memoria che non mi tornerà più»), schermata ogni tanto da un filo di fumo, ricordava una figura sociale, un tipo di donna di massima seduzione anni Sessanta: combattente per dei buoni valori pubblici, sociali (poteva sembrare una psicoanalista o una sociologa di quell’epoca) con un fondo disarmato perché vero. E anche ironico. D’altronde aveva entusiasmato Jean Cocteau, quando ancora coi capelli un po’ lunghi e a onde, a teatro, nei primi anni Cinquanta, buttava lì, come uno schizzo d’acqua frizzante sul pubblico, quel suo «Pascal c’est le présent, le danger, la foudre»; «Pascal è il presente, il pericolo, il fulmine».
Moacyr Jaime Scliar
(23 marzo 1937-27 febbraio 2011)
Scrittore brasiliano di Porto Alegre (Rio Grande do Sul) è morto per una crisi cardiovascolare a 73 anni.
In una delle città del Brasile dove dicono si viva meglio, un figlio di emigrati russi, ebrei, e molto poveri, decideva di fare il medico, lo faceva per un po’, e poi cambiava idea e si metteva a scrivere. Diventando uno degli autori più grafomani, originali, e onorati del Paese. Con romanzi, racconti, saggi, articoli di giornali, storie per bambini, tutti senza lesinare sul numero e l’immaginazione.
Quando, qualche anno fa, a Porto Alegre, sono arrivate da tutte le parti quelle folle di bravi ragazzi e ragazze per denunciare distruttori vari del mondo, le persone più arroccate, o più di destra, un po’ dappertutto, hanno pensato che erano quattro gatti con l’atteggiamento di naufraghi dello sviluppo. Quello stesso sviluppo che loro passavano al setaccio per com’è: diseguale, spesso molto feroce.
Quando, nella Germania degli anni Trenta, il giovane Max Schmidt non può che prendere il largo perché lì il regime (economicamente sviluppato) è ufficialmente razzista, lascia anche una casa dove il padre pellicciaio teneva una tigre impagliata, ma non immagina quello che sta per succedergli. Gli capiterà, sulla rotta oceanica verso il Brasile, di passare dalla condizione di esule a quella di naufrago. Un naufrago particolare: su una zattera da condividere, lui solo, con un giaguaro che lo guarda. Arriverà a destinazione, ma in un seguito di avventure alterne dovrà vedersela costantemente con vari tipi di felini.
Vicende, queste, del racconto più celebre di Moacyr Scliar, che si chiama proprio Max e os felinos. Nella traduzione italiana ha un titolo talmente pasciuto e sovrasviluppato da risultare mediocre: Piccola guida per naufraghi con giaguaro e senza sestante (lo ha pubblicato Meridiano Zero). I critici, benevoli, ci hanno visto un riuscito intreccio fra una variazione surreale della Shoah e il realismo magico della letteratura brasiliana. Più il tema del naufragio, dell’ignoto, del cosa fare e come essere in situazioni del tutto inedite. E di come ingegnarsi quando si è inaspettatamente fuori luogo, stranieri, con un vicino maculato, con la coda, gli occhi gialli, non vegetariano, e che non parla. Una bella e larga metafora, anche sulle decisioni da prendere (o da non prendere affatto, stando fermi) in frangenti aperti a ogni esito.
Nella vita, il giovane Moacyr, figlio di esuli, aveva un padre «incolto» («homem inculto», sue parole, in un’intervista) ma molto bravo nel raccontargli delle storie. Un narratore orale. Sempre nella vita, Moacyr, dovendo decidere cosa fare, sceglieva la medicina. Scelta non fuori luogo, considerando il titolo del suo primo libro, del 1962: Histórias de Médico em Formação. Altri titoli (un paio tradotti in italiano da Voland), in una lista lunghissima, sono, per esempio, O centauro no jardim (Il centauro nel giardino, 1988), A mulher que escreveu a Bíblia (La donna che scrisse la Bibbia, 1999), e Os leopardos de Kafka (I leopardi di Kafka). Quest’ultimo, scritto nel 2000. I felini più Kafka in apertura del millennio. Un bel fianco a fianco. Forse Moacyr, ex naufrago, ha avuto la vista molto lunga.
Il quadro di questa settimana: «Autobus» di Aleksander Bednarski