Sidney Lumet
(25 Giugno 1924 – 9 Aprile 2011)
Regista americano, di Philadelphia, Pennsylvania. Amava New York, dove è cresciuto, ha lavorato, ed è morto per un linfoma, nella sua casa di Manhattan. Ha diretto oltre 50 film, ed è stato anche un attore-bambino: a Broadway (aveva nove anni, in The Eternal Road, di Kurt Weill), e nel teatro yiddish (11 anni, in Papirossen, che vuol dire «sigarette», di Henry Lynn). Aveva fatto quattro anni di guerra mondiale, e nel 1946 era finito in India e in Birmania come addetto riparatore di radar.
Il figlio di Baruch Lumet – attore, regista, impresario e scrittore di teatro yiddish – e della ballerina Eugenia Wermus, è rivissuto, appena morto, a 86 anni, nel suo ruolo e nella sua sostanza. I ricordi hanno coinciso: «Il più morale fra i grandi registi americani». Oppure, nel dettaglio: «Il suo criterio più importante sta nell’autenticità delle azioni dei suoi personaggi. Se queste azioni sono giustificate dalla coscienza individuale, i suoi eroi trovano una forza e un coraggio non comuni per resistere alle pressioni, agli abusi, e alle ingiustizie degli altri». O, in più: «Quasi tutti i personaggi della galleria di Lumet sono guidati da ossessioni o passioni. La giustizia, l’onestà, la verità, incrociate alle grinfie della gelosia, della memoria, della colpa. Quello che coinvolge Lumet non è tanto l’oggetto delle loro fissazioni, quanto la condizione ossessiva in sé».
Parlando con lo scrittore Carlos Fuentes, 28 anni fa, Luis Buñuel, concludeva: «Nel caso qualcuno lo dimenticasse, o pensasse diversamente, non viviamo nel migliore dei mondi possibile. Il vero problema è la sopravvivenza». Nel 2007, intervistato dal New Yorker, Sidney Lumet, puntava su un particolare del concetto: «Mi sembra che uno dei nostri più grandi problemi oggi sia uscire dal progressivo isolamento delle persone, dappertutto».
Sol Nazerman, il protagonista dell’Uomo del banco dei pegni (The pawnbroker, un capolavoro in bianco e nero di Lumet, del 1964, con Rod Steiger interprete) potrebbe sottoscrivere la conclusione di Buñuel constatandosi nell’isolamento citato da Lumet. Un ebreo polacco, sopravvissuto allo sterminio nazista, che fa l’usuraio ad Harlem, New York. Lo fa senza pietà, soprattutto verso se stesso e la sua famiglia. Le grinfie della memoria – della Shoah – sono intermittenti (flashback), quelle della colpa (per essere sopravvissuto e, di riflesso, nei confronti degli usurati) stabili. Alla fine Nazerman è di nuovo un salvato perché un altro (il suo commesso del banco, un povero di Harlem) muore al posto suo, durante una rapina. Come film, o riflessione (in più sensi), o storia, «intorno» alla Shoah (e non sulla Shoah) resta unico, e con un valore permanente, generale: tutti gli effetti derivati dall’aver vissuto nel peggiore dei mondi possibili.
Sonia Sotomayor, giudice della Corte Suprema (dall’Agosto 2009), ha ricordato come la sua carriera legale e giuridica sia stata influenzata dal film Twelwe angry men (La parola ai giurati, sempre in bianco e nero, del 1957, un caso di camera di consiglio dove un probabile verdetto di colpevolezza per omicidio diventa progressivamente un’assoluzione votata all’unanimità). Al Pacino, protagonista di Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon, 1975, a colori) ha parlato dell’«eredità umana dell’uomo più civile e gentile che io abbia mai conosciuto».
Mentre il Boston Herald ha suggerito, realistico: «Mentre l’industria cinematografica americana, oggi, si osserva, o misura a quanto in basso può scendere, Sidney Lumet resta a master of the morally complex American drama».
Kais al-Hilali
(1977–25 Marzo 2011)
Pittore satirico di murales, e cyberartista libico. Ucciso a Bengasi, mentre aveva quasi terminato uno dei suoi lavori su un muro della città.
«Dipingo quello che provo» (Edward Hopper)
Un «rebel artist», politico, già conosciuto per i suoi graffiti urbani. Molto dotato e con uno sponsor, e amico, di Bengasi, Abdullah al-Zawway, che ha raccontato la sua morte. «Ero con lui, stava dipingendo una grande caricatura di Gheddafi all’altezza di un rondò che stavamo intitolando ai martiri di Misurata, i nostri fratelli assediati nella loro città. C’era una gran folla che guardava. Fra di loro, senz’altro, dei sostenitori di Gheddafi. Era pericoloso, ho detto a Kais di interrompere il lavoro e andarsene da lì. Poco dopo era morto».
Un altro amico, Hani Elhaddad, ha spiegato: «Con Kais avevamo formato un gruppo di 25 persone che, dopo le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, aveva organizzato una rete di protesta anche in Libia. Via Facebook, soprattutto. Ci eravamo chiamati The Furious Nation».
Attivo sui muri della Bengasi liberata, Kais si era rifiutato di combattere con le armi. Faceva il suo lavoro (definito passive style of activism), rivitalizzando la città coi suoi murales. La televisione di Stato, a Tripoli, accusava Zawway, l’amico-sponsor, di «aiutare i topi».
Quel giorno, 25 marzo, Kais aveva appena lasciato il rondò e i suoi graffiti (nella parte Ovest di Bengasi, ritenuta un bastione pro-regime), era montato su una macchina guidata da due amici e diretta verso i bastioni di Tabalina. All’altezza del ponte di Tripoli, erano stati fermati a un checkpoint da degli uomini armati. I tre avevano pensato immediatamente che fossero degli insorti, salvo venire subito investiti da una raffica di mitra. Aymin Hadar, 21 anni, che guidava, e si è salvato, insieme all’altro amico, ha raccontato: «Kais era morto, sul sedile posteriore. Uno degli uomini armati ha aperto la portiera, lo ha guardato, e gli ha chiesto: «Che cosa ti succede?». Non hanno più sparato e sono scomparsi nel buio. Ci siamo precipitati all’ospedale, ma era troppo tardi».
Chris Hondros
(14 Marzo 1970–20 Aprile 2011)
Timothy (Tim) Hetherington
(5 Dicembre 1970–20 Aprile 2011)
Due fotografi-giornalisti uccisi a Misurata, Libia occidentale. La città è sotto assedio delle truppe di Gheddafi. Vengono usate, fra l’altro, bombe a grappolo, il cui uso è ufficialmente bandito dalla maggior parte dei Paesi dell’Onu. I mortai colpiscono indiscriminatamente. E hanno colpito anche Chris Hondros, americano, e Timothy Heterington, cittadino inglese e americano.
Gli uomini, «figli di un giorno» (Empedocle)
Chris Hondros e Tim Hetherington, figli della stessa età (41 anni, compiuti o da compiere), hanno forse condiviso, nel loro mestiere, e nelle sue soste, anche quella sensazione di nostalgia, o di vuoto, che Rainer Maria Rilke e Graham Greene hanno nominato, variando, a modo loro, la visuale. Quando si vive «nella piena», si perde «la patria dentro il tempo». Quando si vive in guerra, capita anche di stare «fermi senza far nulla, in attesa di qualcos’altro». E, «con nessuna garanzia sulla quantità di tempo che vi può rimanere, non sembra che valga la pena di iniziare nemmeno un filone di pensieri». Immaginarli fermi (anche contro l’evidenza del loro coraggio e della loro bravura riconosciuti) può equivalere a vederli vivi.
Dentro Misurata, e insieme ai suoi difensori, hanno condiviso una «resistenza». In corso. E sono stati uccisi anche resistendo. È una forma di patria, la più promettente e rischiosa, quella che fa fare il salto dall’attesa a qualcos’altro. Ed è un modo per ricordarli «dentro il tempo».
Il quadro di questa settimana: «Connection I» (particolare), della pittrice estone Mara Koppel, olio su tela, 2004.