Sir Mike (Michael) Gray
(3 Maggio 1932 – 13 Marzo 2011)
Alto ufficiale – tenente generale – inglese dei tempi passati. Imperiali. O meglio, di quando l’Impero, arrendendosi al futuro, si autosmontava pezzo dopo pezzo. A volte con scioltezza (Ghana), a volte cercando di dare un’estrema pennellata in armi (Egitto, Aden, Kenya). Più spesso con interventi mirati a conservare il conservabile. Anche quando questo non era più britannico, ma apparteneva ad affini o protetti: monarchi sunniti che discendevano dal Profeta (gli hashemiti di Amman e, un tempo, di Baghdad). Emiri che, in riva al Golfo, erano stati fatti re contando le royalties derivate dal greggio. L’epicentro del quadro era Suez, ma il suo passepartout arrivava fino ai sultanati malesi. In questa cartina semiglobale, Sir Mike ha fatto la sua parte, vestito da paracadutista, e poi da graduato di successo in quel corpo. E anche come un ubiquo orientalista in divisa. È morto in pace, a neanche 80 anni, allo York Hospital. Rimpianto «alla militare», senza ombra di militarismo. Come in genere gli inglesi sanno necroelogiare i propri soldati.
Si raccontava, negli anni Venti del Novecento, che il capo barman del circolo ufficiali del Cairo centrasse la postura di tutti quei gentiluomini in kaki con questa espressione: «Empirely Britons», imperialmente britannici. Un neologismo fantasma (non esiste in inglese) per dire, giocando, «entirely Britons», del tutto britannici.
Si legge, in una cronaca militare dal deserto arabico nell’ottobre 1917 (fronte sudorientale della Grande Guerra): «Eravamo certi di ottenere, con qualche abilità, dodicimila uomini abbastanza per assalire Deraa, per fracassare tutte le linee ferroviarie e magari prendere Damasco di sorpresa. La mia tentazione di arrischiare senz’altro tutto il nostro capitale per ottenere questo risultato, era tormentosa. La popolazione locale ci implorava». L’autore, il tenente colonnello T.E. Lawrence, sapeva scrivere benissimo, e riusciva a essere il più originale agente britannico travestito (contro i turchi) in quella regione spettacolare e insabbiante. Al punto da farsi conoscere col pedigree di Lawrence d’Arabia.
Si sa che in musica l’«effetto eco» è una forma aggiuntiva di clima, di espressione. E si può dire che in Storia (guardata di getto, nelle sue scene) quell’effetto si trasforma in un colpo di memoria fulmineo: quando un determinato luogo, dove un tempo è successo qualcosa, ritorna d’attualità col suo stesso nome ma con un fatto, un’epica diversa, da offrire a un pubblico di miliardi di persone.
Michael Gray non scriveva come Lawrence, anzi non lo faceva del tutto, non ha mai puntato su Dar’ā (oggi si scrive così) e la Siria, ma era un militare empirely Briton. E l’eco di alcuni altri posti dove è stato spedito ad agire si fa sentire, ininterrotto, nelle nostre giornate, da quasi tre mesi. L’effetto è immediato, i telegiornali fanno da timpano e da battimani: quei luoghi si chiamano Yemen, Egitto, Giordania, Bahrain. La loro rispettiva situazione, poco più di mezzo secolo fa, può essere vista come la nonna dei loro rispettivi quadri, oggi. O, al contrario anagrafico, come un’età dello sviluppo con molto acne, molte speranze adolescenziali, e poi molta repressione prolungata in una stagione più adulta. Con Mike e le sue imprese (un insieme anglo-occidentale in un ripasso di storie arabe) si gira il collo all’indietro e su qualche istantanea.
Nello Yemen dei primi anni Sessanta e oltre si trattava di dare una mano fortissima alla parte monarchica e antica in una guerra civile che sarebbe durata dal 1962 al 1970: il sovrano, l’imam zaidita Muhammad al-Badr (Maometto «luna piena») era stato disarcionato da un colpo di Stato nasseriano, una tipologia militare arabo-nazionalista molto di successo a quell’epoca. Lo Yemen era, come oggi, strategico: la ricchezza saudita a ridosso, il Mar Rosso che bordeggiava, la colonia britannica di Aden che, sull’Oceano Indiano, faceva da guardiano con un doppio fardello sulle spalle: dell’uomo bianco, soprattutto angloamericano, e di tutta la penisola arabica a lui indispensabile e alleata. In quell’angolo yemenita spianato dalla bellezza, Mike e i suoi hanno avuto un doppio lavoro: agire sulle montagne a supporto dell’imam e dei suoi partigiani (moderatamente celebre il buon exploit di quei paracadutisti in località Radfan), e reprimere in città, ad Aden, l’impazienza, in armi e bombe, degli indipendentisti (la battaglia nel Distretto del cratere è la più conosciuta di quel confronto tardocoloniale).
A Suez, sul canale, 1956, l’operazione Musketeer, insieme alla Francia e ai suoi paracadutisti, è troppo conosciuta per tornarci nei particolari. Si trattava, per Londra e Parigi, di riprendersi la proprietà delle azioni della Compagnia del Canale, di mostrarsi come forza di intermediazione fra Israele (che avanzava nel Sinai) e l’Egitto, di proclamare la libertà di passaggio per ogni Paese lungo il Canale, e di liberarsi del nazionalizzatore e dittatore Gamal Abd el-Nasser. Operazione militarmente riuscita, ma subito scornata, cioè condannata, dal presidente americano Eisenhower e dall’Onu. E una sostituzione di potenza occidentale di fronte ai futuri clienti arabi di quell’area, in esteso: dagli inglesi, sorpassati e «imperialisti» agli Stati Uniti «anticolonialisti». Lo stato delle cose colorato di propaganda.
Giordania e Bahrain. Ad Amman la sedicesima brigata arrivava dalle basi di Cipro (1° luglio 1958) per assistere e rinforzare il giovane re Hussein (a Baghdad, il cugino, anche lui hashemita, Feisal II, era stato da poco rovesciato e ammazzato insieme alla sua famiglia nel golpe repubblicano – e sempre ispirato da Nasser – del colonnello Abd al-Karim al-Qasim). I parà inglesi sarebbero rimasti fra i giordani fino al 29 ottobre di quell’anno. Mentre in Bahrain, affidato da una serie di trattati alla famiglia sceiccale e sunnita degli Al-Khalifa, la protezione militare, insieme a Royal Navy, sarebbe stata costante almeno fino al 1971, l’anno dell’indipendenza. E fino all’arrivo della Naval Support Activity degli Stati Uniti: premessa di un’altra sostituzione strategica. E altra croce messa sulla cartina dell’ex potere imperiale inglese. (Da ricordare che contro la loro «protezione», nel marzo 1965, c’era stata una seria «March Intifadah». E, in aggiunta, sull’oggi, va citata la più originale imprecazione urlata da un ragazzo che montava su un motorino, mentre la polizia, a Manama, aveva appena falciato un po’ di insorti sulla piazza: «Anche Israele ha più onore di questo re»).
Questa, in sintesi, e in parte, la scena, anche suggestiva, dove Mike è intervenuto col suo spirito di servizio e di corpo. E coi suoi valori british.
Al pensiero occidentale – quando diventa armato, interventista, soprattutto inglese, francese, o americano, o tutti e tre insieme – vanno riconosciute un bel po’ di contraddizioni ma anche una morale della Storia da giudicare per quello che è, caso per caso. Dialettica, come minimo. E questo, partendo, per esempio, dalla Seconda guerra mondiale, il caso più chiaro. Quando quegli interventi, chiamiamoli così, hanno fatto in modo che il mondo non diventasse una galera sterminata e sterminante. Interventi che milioni di persone immaginavano e imploravano come una manna attesa da due direzioni: cielo e terra.
Sotto questa prospettiva, ma in un suo angolo particolare, Michael Gray e altre persone come lui restano dei prototipi in divisa quantomeno interessanti. Lui, ufficiale decisamente colonialista di un impero terminale, presiedeva anche un’associazione creata per non far dimenticare una divisione di soldati inglesi decimata sulle spiagge della Normandia, nel giugno 1944 (la Airborne Assault Normandy Trust, nata nel 1978). Dei morti durante lo sbarco più eroico della Storia, per liberare l’Europa. Così come, un po’ peggio di lui, ci sono stati ufficiali e generali francesi «Compagni della Liberazione» (l’espressione a Parigi è anche onorifica e indica i meriti e le azioni nella Resistenza) che ad Algeri avrebbero represso con ogni mezzo (tortura in testa) la battaglia per l’indipendenza.
Il termine colonialista, oggi, è molto più anziano degli 80 anni di vita di Mike Gray, ma viene forse usato da milioni di persone come un elisir per non far passare l’età. E il tempo storico. Eppure, proprio in questi ultimi mesi e settimane, resta indifferente (almeno come slogan elementare) a chi è insorto, o si sta facendo ammazzare in quel largo quadro «orientalista» dove Gray, Lawrence e altri, hanno espresso, ognuno con i rispettivi estri, un insieme di ruoli e di caratteri vecchio stile.
Warren Minor Christopher
(27 Ottobre 1925-18 Marzo 2011)
Di Scranton, North Dakota, di formazione avvocato e giurista, è stato il più inventivo segretario di Stato americano di fine secolo. In quattro anni di incarico – 1993-1997 – ha dato smalto alla prima fase di un presidente già di per sé originale (il democratico Bill Clinton), e a un gruppo di città del mondo o sconosciute (Dayton, Ohio, poco meno di un milione di abitanti), o che avevano bisogno di pace (Sarajevo e dintorni, Bosnia), o che, essendo capitali, si sono trovate ulteriormante al centro di scene da grande storia (Oslo e Washington D.C.). Aveva 85 anni e sei mesi. È morto di cancro a Los Angeles, a casa sua.
Per ricordarlo, al massimo dell’ammirazione, Hillary Clinton ha lanciato di lui un ritratto che, soprattutto gli italiani (al ministero degli Esteri, o fra gli ambasciatori, o ex ambasciatori che fanno gli esperti di geopolitica), dovrebbero guardare come il loro contrario: «Warren era il diplomatico dei diplomatici, pieno di talento, di un’eccezionale saggezza». Il suo ritratto fisico era egualmente diplomatico e fuori norma: la faccia sembrava disegnata da Oskar Kokoschka, o un insieme cubista, il modo di muoversi e di parlare un incrocio di educazione non burocratica e di risparmio di retorica, l’eleganza, stirata ma non funzionariale, con un suo carattere (soprattutto nelle cravatte).
La sua esperienza, prima di quell’incarico di primo piano (il segretario di Stato, in America, è, nei fatti, un “vicepresidente” più importante di quello formalmente designato), ha coinciso con una successione di ruoli dentro l’architettura dello Stato e a livelli quasi massimi. In qualcosa che padroneggiava con cognizione di causa e di effetti. E con buoni sforzi di immaginazione. E da democratico (cioè non repubblicano) indefettibile.
Warren Christopher era stato chiamato, nel 1967, da Lyndon Johnson, a fare il vicemininistro della Giustizia (era il periodo in cui ai neri d’America venivano riconosciuti, finalmente, i diritti civili). Due anni dopo, con Richard Nixon alla Casa Bianca, mollava la funzione. Jimmy Carter (un presidente, tutto sommato, di «valori» universali), riconoscendo quell’attitudine anche in Christopher lo nominava, nel 1976, vice Segretario di Stato. Facendolo entrare, da ex avvocato, nelle cause e nei processi del mondo (in senso lato). In particolare, fra quei processi storici, nella rivoluzione iraniana del 1979.
In quel frangente (un’onda da tsunami geopolitico), e in uno dei suoi più teatrali colpi di scena e di propaganda (gli ostaggi americani tenuti prigionieri nella loro ambasciata a Teheran), Warren Christopher, mettendocela tutta per la loro liberazione (volontà e pazienza da negoziatore), è stato battuto, per pochi minuti, da una non analoga, ma più pubblicitaria, capacità tattica dei suoi avversari. Si trattava, ad Algeri, lungo cinque mesi (1980-81), poi, cinque minuti prima dell’intronizzazione di Ronald Reagan alla presidenza, gli ayatollah annunciavano, loro, direttamente, il rilascio degli ostaggi. Senza avere lo zoom finale su di lui, Warren aveva comunque dato una prova esemplare. Da uomo di Stato e da quiet American non letterario (cioè non spione).
Non era un tattico, ma il mondo di fine secolo (gli anni Novanta), non avrebbe avuto un gran bisogno di quel modo di muoversi. La tattica, con le sue trovate e la sua fantasia contingenti, andava bene se la «fine della Storia» fosse stato un postulato reale: quando il quadro sembra rettificato per sempre, ci si concentra sugli aggiustamenti, variamente astuti o interessati. Invece succedevano altre cose, da scoppio, o scoppi, di un’altra Storia: l’Intifada palestinese, la guerra alleata nel Golfo, il passaggio dall’Urss alla Russia (con la paura del tracollo economico del nuovo Stato), il cataclisma jugoslavo, la scoperta del terrorismo islamico a tutto campo.
Per una superpotenza globale, democratica, militare, ma illusa dal suo autismo soddisfatto, tutte quelle stanze mondiali in disordine, andavano riviste, dove si poteva, con un concentrato di qualità. Poche ma buone. E inedite. Più o meno le stesse che Hillary Clinton ha aggiunto al necrologio del suo ex collega, e ispiratore, Warren Minor Christopher: «Coglieva la sottile interazione fra la difesa degli interessi nazionali, i valori fondamentali, e la dinamica personale necessaria all’esercizio della diplomazia». (Se il ministro Franco Frattini incorniciasse questi concetti così come sono, e se li appendesse, come ogni tanto fanno i notai, nei loro studi, con le frasi di Luigi Einaudi…).
Quell’interazione e quella dinamica personale, facendo di lui un Segretario di Stato parzialmente mondiale, sono stati le sostanze e la tappezzeria di almeno due paci, o tregue, difficilissime da sanzionare, e poi da perfezionare. Se tutti gli Stati, con i rispettivi regimi e popoli, possono riflettersi, almeno sui loro «interessi nazionali e valori fondamentali», il principio e il dato di realtà dovevano valere, anche forzando con diplomazia una mano superpotente, su israeliani e palestinesi, nonché su serbi, croati e bosniaci.
Nell’agosto del 1993, patrocinando, a Oslo, gli accordi «di principio» fra Israele e Palestina, e facendoli poi firmare, un mese dopo e con molto spettacolo, a Washington, la saggia America di Bill Clinton e di Warren Christopher faceva fare a due nemici quasi fuori dalla Storia (mezzo secolo di non riconoscimento e di guerra) un inaudito scambio, o rientro, psicologico, oltre che formale: gli uni, con una valanga di anaffettività, riconoscevano un’esistenza di fatto (l’Autorità palestinese). Gli altri, senza crederci neanche un minuto, un diritto all’esistenza (dello Stato d’Israele). La scena, per la Storia, sarebbe stata comunque una novità: Yitzhak Rabin (rigido, o timido), Shimon Peres (mondano), Yasser Arafat (stereotipato nel suo celebre sorriso mediatico), allineati insieme sul prato della Casa Bianca, con l’altissimo Clinton che li sovrastava come un protettivo Cristo pantocrate. In aggiunta, il re giordano Hussein che firmava un trattato di pace con Israele, nel 1994. Secondo autocrate arabo a farlo, dopo l’egiziano Sadat, nel 1979, dopo gli accordi di Camp David.
A Dayton, Ohio, il 21 novembre 1995, Warren Christopher dimostrava un’altra qualità: saper scegliere un suo vice, fidato, intelligente, negoziatore di primo livello, Richard Holbrooke, insomma (è morto anche lui, nel dicembre scorso). In quella cittadina americana, diventata improvvisamente storica, l’America convocava i protagonisti del massacro jugoslavo per far loro firmare il «General Framework Agreement for Peace», cioè un accordo che sancisse la fine della guerra civile e una complicata ridefinizione dei confini. Holbrooke sapeva con chi aveva a che fare, con quei tre protagonisti che si odiavano non cordialmente: in testa il peggiore, il serbo Slobodan Milošević (morirà, sotto processo per crimini contro l’umanità, in una prigione, all’Aia), allineato al croato Franjo Tuđman (ex generale di Tito, molto nazionalista, e molto poco democratico), e al bosniaco musulmano Alija Izetbegović (simbolo, non eccezionale, del più annientato fra i popoli ex jugoslavi, e delle città martiri di Sarajevo e Srebrenica).
Gli Stati Uniti di Clinton, Christopher e Holbrooke, erano intervenuti decisi, oltre che saggi: un caso di azione risolutiva, solitaria, non in armi, a fronte di un’Europa che in Europa aveva lasciato fare il peggio, dopo essere stata stupidamente tattica, e in ordine sparso. La Germania era filocroata, la Francia e soprattutto l’Italia amavano i serbi (un’Italia che andava da Susanna Agnelli, ministro degli Esteri, alla Lega Nord). Holbrooke era la guida di quella conferenza, ai suoi contorni stavano l’inviato speciale europeo, lo svedese Carl Bildt, e il viceministro degli Esteri russo Igor Ivanov. Due comparse, perché Sarajevo e molti altri luoghi di quell’ex Paese, ex federale, ex multietnico, devono oggi il loro futuro anche al «talento» di quell’America e di quel Segretario di Stato.
Che, alle elezioni presidenziali del 2000 (si apriva un’epoca diversa, il tempo di Bush figlio) era stato anche chiamato, in Florida, a supervisionare la tormentosa riconta dei voti : quando Al Gore aveva nei fatti vinto, e la Corte Suprema gli aveva, di fatto, cancellato la vittoria.
(Anche l’ex presidente Jimmy Carter ha lasciato da tempo, nelle sue memorie, un suo colpo d’occhio su Warren Christopher: «Il miglior “public servant” che io abbia mai conosciuto»).
Il quadro di questa settimana: «Interior decoration», della pittrice finlandese Mira Bäckman, olio su cartone, 2006