Tra i cinesi di Roma: «Il sogno non è più l’Italia, è di tornare in Cina»

Tra i cinesi di Roma: «Il sogno non è più l’Italia, è di tornare in Cina»

ROMA – Il barbaro omicidio di ieri notte a Torpignattara, periferia est della capitale, nel quale hanno perso la vita un uomo cinese di trentuno anni e la sua piccola di appena nove mesi, ha generato sgomento e indignazione tra gli abitanti della zona, e colpito al cuore una comunità che, nella sola Roma, vanta circa cinquantamila persone (dati sottostimati). Una rapina efferata che interrompe bruscamente il clima di festa che regnava tra i cinesi in questi giorni, nel fermento dei preparativi per celebrare l’arrivo dell’Anno del Drago (Capodanno Cinese o Festa di Primavera), previsto il 23 Gennaio.

Ma come vivono i cinesi di Roma? Siamo andati a visitare i posti dove vivono, lavorano e si riuniscono, per scoprirlo.

Al mercato rionale dell’Esquilino, il quartiere più multietnico della capitale, di banchi cinesi se ne contano a malapena quattro. «Non c’è da sorprendersi – ci confida un signore sulla sessantina, accento romano, da oltre dieci anni specializzato nell’import-export tra Italia e Cina – i cinesi sono imprenditori, non si abbassano a vendere frutta e verdura per strada. Molti di questi banchi – continua l’uomo, che preferisce conservare l’anonimato – sono proprietà dei cinesi, che poi assumono manodopera a bassocosto, soprattutto bengalesi e cingalesi».

Eppure, a cercarla bene, qualche venditrice con gli occhi a mandorla esce fuori. Si chiama Jin, 42 anni, arrivata in Italia negli anni Novanta. Sul suo bancone trovano spazio frutti italiani e primizie asiatiche. La clientela di Jin non ha razza: «Asia, Africa, America Latina, i miei consumatori provengono da ogni dove». Spuntano – a sorpresa – anche gli italiani: «Sono dieci anni che lavoro in questo mercato, la gente del quartiere mi conosce, ed anche le casalinghe italiane si fidano della qualità dei miei prodotti».

Poco distante da quello di Jin c’è un altro banco a tenere alta la bandiera rossa a cinque stelle. È una macelleria, a gestirla una coppia di giovani sposi cinesi, affiancati da un filippino e, grembiuli bianchi alla vita; hanno un gran da fare tra spuntature, guanciale e braciole da tagliare. Il loro banco è preso d’assalto in continuazione dai connazionali che fanno acquisti in grandi quantità. Però qui di italiani non se ne vede neanche l’ombra malgrado i prezzi concorrenziali e la carne esposta in bella vista: le leggende metropolitane sulla cucina cinese non sono affatto superate.

A ridosso dell’uscita principale del mercato poi c’è il banco di Hu e sua moglie Zeng. Hanno 48 anni (uno in più secondo il calendario cinese). Hu è venuto in Italia da solo, sedici anni fa, per fare fortuna, lasciando in patria una famiglia appena formata e tre figli piccoli. Difficile il primo periodo, la ricerca di lavoro e tutta l’epopea burocratica da seguire; poi, pian piano, è riuscito a far quadrare il cerchio, ottenendo il ricongiungimento familiare. I figli di Hu e Zeng sono diplomati, hanno un’occupazione e uno stipendio fisso. Di tanto in tanto vengono a Piazza Vittorio ad aiutare i genitori, perché loro vivono in un altro quartiere, ed hanno amici più italiani che cinesi. Hu non si lamenta della sua condizione, anche se ammette un calo brusco di vendite negli ultimi mesi: «La crisi a Roma noi cinesi la percepiamo più degli italiani».

A Piazza Vittorio Emanuele II e strade limitrofe la maggior parte dei negozi reca insegne cinesi: si trovano punti vendita di abbigliamento, calzature, casalinghi, ristoranti e, di tanto in tanto, sbuca anche qualche timida boutique, in rigoroso “Chinese style” ovviamente. A via Bixio, in una scuola pubblica, un gruppo di insegnanti cinesi organizza laboratori di lingua e cultura cinese indirizzati sia ai cinesi nati in Italia sia a cittadini italiani interessati. Capostipite dell’iniziativa è Jiang, una giovane professoressa di 34 anni, che porta avanti questo progetto dal 2006. «Organizziamo le lezioni fuori dagli orari scolastici (dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 19, e il sabato mattina), abbiamo circa trecento iscritti, dai bambini di tre anni fino ad arrivare ai ragazzi delle scuole superiori, e ci sono anche una trentina di italiani».

Jiang fa il punto sulla condizione dei cinesi di seconda generazione: «L’80% dei ragazzi è nato qui, sono giovani che parlano romano, vestono occidentale, amano la cultura italiana, ma hanno la cittadinanza cinese, e non devono dimenticare le proprie origini. Rappresentano un ponte tra le due culture». Interrogata sul suo futuro, la giovane insegnante resta un po’ interdetta: «Fino a cinque anni fa avrei risposto Italia, senza esitare. Oggi non la penso più così: sono tanti i cinesi che vogliono tornare nel proprio paese d’origine, in Cina c’è più speranza che in Italia».

Della stessa opinione anche il direttore di un’agenzia di viaggi specializzata in rotte con il Sud Est Asiatico: «Negli ultimi cinque-sei anni c’è stato un boom di voli per Shanghai e Pechino, ed un pullulare di compagnie aeree che investono su questa tratta», afferma il tour operator. C’è però un cambio di rotta, non si viaggia più da Est verso Ovest, perché il vento è cambiato: «Si trovano voli per Pechino anche a meno di cinquecento euro, e molti cinesi fanno un biglietto di sola andata».

A dar man forte a questa tesi ci pensa Lucia King, imprenditrice romana che vanta di essere la cinese più vecchia di Roma. «Quando nel 1965 sono arrivata in Italia – afferma la donna – nella capitale vivevano a malapena dieci cinesi. Io ho potuto seguire dal di dentro tutto il processo, dai cinesi della prima generazione, di cui faccio parte, poi è arrivata la seconda ed i loro figli, nati in Italia e che fanno parte della terza generazione, ormai integrata a tutti gli effetti». A detta di Lucia King gli italiani dovrebbero iniziare a temere i cinesi: «Prima facevamo a gara per venire in Italia perché si pensava di trovare l’oro sulle strade, ma adesso l’oro è in Cina. Quando oggi arrivano le delegazioni cinesi qui mi sento dire: Ma l’Italia è tutta qua? La Cina è molto più avanti».
 

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